IL C.C.N.L. Sanità individua la categoria dell’Infermiere tra “i dipendenti che ricoprono posizioni di lavoro che richiedono conoscenze teoriche specialistiche e/o gestionali in relazione ai titoli di studio e professionali conseguiti, autonomia e responsabilità proprie, capacità organizzative, di coordinamento e gestionali caratterizzate da discrezionalità operativa nell’ambito di strutture operative semplici previste dal modello organizzativo aziendale”.
L’infermiere rientra nella categoria D del ruolo sanitario.
La stessa Fondazione inquadra, nella categoria B, l’Operatore Tecnico addetto all’Assistenza (O.T.A.), così definito: “Svolge le attività alberghiere relative alla degenza comprese l’assistenza ai degenti per la loro igiene personale … la pulizia e la manutenzione di utensili e apparecchiature”.
Come esamineremo nella parte che riguarda la legislazione nazionale dell’O.T.A. e dell’O.S.S., per utensili si intendono anche quegli strumenti utilizzati per l’assistenza al paziente, ivi compresi le padelle e i pappagalli per l’evacuazione e la diuresi del paziente allettato.
L’O.T.A. è attualmente sostituito dall’Operatore Socio Sanitario (O.S.S.) perché maggiormente preparato e specializzato, quindi nella categoria Bs (super cioè specializzato), l’O.S.S. è così descritto: “Svolge la sua attività … in servizi di tipo socio assistenziale e sociosanitario in ambiente ospedaliero e al domicilio dell’utente. Svolge la sua attività su indicazione degli operatori professionali proposti all’assistenza sanitaria … secondo il criterio del lavoro multi professionale. Le attività dell’Operatore Socio Sanitario sono rivolte alla persona e al suo ambiente di vita al fine di fornire assistenza diretta e di supporto alla gestione dell’ambiente di vita; intervento igienico sanitario e di carattere sociale …”.
Ragioni di priorità logica impongono di esaminare innanzitutto il profilo dell’infermiere e, successivamente, il profilo del personale ausiliario (O.T.A. e O.S.S.), per meglio comprendere le ragioni di fatto e di diritto sottese la grave violazione dello ius variandi su cui si basa l’assioma dell’art. 2103 C.C.: “Il lavoratore deve svolgere le mansioni per le quali è stato assunto”, ancora rinvenibile nonostante la riforma ad opera del job act, e dell’art. 2087 C.C. che correda le garanzie psicofisiche e morali che il datore deve garantire al lavoratore.
La professione infermieristica è stata da sempre suddivisa in due profili: l’infermiere professionale e l’infermiere generico; la legge 26 febbraio 1999 n. 42, dal D.P.R. 24 marzo 1974 n. 225, delinea un “cambiamento” nella regolamentazione dei due profili, in quanto abroga la parte che riguarda il mansionario dell’infermiere professionale, ma lascia salvo esclusivamente l’art. 6, che disciplina, tuttora, il mansionario dell’infermiere generico.
L’art. 1 esplicitava le mansioni dell’infermiere professionale contemplando tra le varie prestazioni di squisita natura amministrativa, preventiva, curativa e palliativa di natura clinica, anche un’attività che è stata oggetto di profondi dibattiti, almeno per la sua dubbia portata interpretativa e cioè: “l’assistenza completa all’infermo”.
All’art. 6, invece, il mansionario dell’infermiere generico, privato delle mansioni di maggior qualificazione tecnica relegate solo al professionale, prevede tuttora, tra le mansioni assegnate, quella di “assistenza completa al malato”.
La sovrapposizione delle medesime mansioni assegnate a due profili, seppur affini ma sostanzialmente diversi, ha creato un serio problema interpretativo concernente, appunto, la sillogia tra le due locuzioni utilizzate dal legislatore per precisare l’assistenza diretta a carico dell’infermiere professionale, ovvero l’“assistenza completa all’infermo” e a carico dell’infermiere generico l’“assistenza completa al malato”; mansioni sovrapponibili.
La diversità tra l’infermiere professionale e l’infermiere generico si dipana su vari ambiti: il primo doveva possedere il diploma di maturità per accedere al corso triennale di infermieristica (negli ultimi 15 anni il titolo richiesto è la laurea), dopodiché, superato l’esame di abilitazione, poteva iscriversi al Collegio professionale per esercitare la libera-professione ovvero candidarsi per il lavoro subordinato; il secondo accedeva alla scuola per infermieri generici della durata di un anno, con il titolo di studio di licenza elementare (L. 29 ottobre 1954 n. 1046), con l’impossibilità di iscriversi al Collegio professionale e, non assumendo la natura di professione intellettuale ai sensi dell’art. 2229 C.C., non era autorizzato a decidere in via autonoma quanto necessario al paziente, dovendo fare riferimento sempre all’infermiere professionale.
All’infermiere professionale erano concesse la somministrazione della terapia endovenosa sia in bolo che il flebo, l’incannulamento venoso, il prelievo venoso-arterioso, l’effettuazione dell’emogasanalisi, l’ossigenoterapia, il cateterismo semirigido, il posizionamento del sondino naso-gastrico, ecc., oltre alla gestione della documentazione clinica e l’autonomia in diversi ambiti clinici, come nel controllo dei parametri vitali, nella richiesta di intervento medico ed altro, mentre “l’infermiere generico coadiuvava l’infermiere professionale in tutte le sue attività …” (art. 6, co. 1, D.P.R. n. 225/74).
Queste diverse competenze hanno determinato la collocazione funzionale e retributiva dei due differenti profili e, di conseguenza, anche i titoli di studio da conseguire: l’infermiere professionale era collocato al 6° livello (ora categoria D con tutte le fasce economiche), mentre l’infermiere generico era al 5° livello (ora categoria C fascia economica 2), determinando una gerarchia tra i due profili e, conseguentemente, una subalternità del generico rispetto al professionale.
Ne consegue che la sovrapposizione delle mansioni assistenziali dirette andava risolta sul piano esegetico; e così avvenne.
Leggendo estesamente il par. a) dell’art. 6, D.P.R. n. 225/74, che riguarda l’infermiere generico, si precisa: “assistenza completa al malato, particolarmente in ordine alle operazioni di pulizia e di alimentazione, di riassetto del letto e del comodino del paziente e della disinfezione dell’ambiente …”.
Nel caso dell’infermiere generico, la mansione di assistenza completa al malato è corredata da altre specifiche attività (operazioni di pulizia e di alimentazione, di riassetto del letto e del comodino del paziente e della disinfezione dell’ambiente, ecc.), diversamente da quanto stabilito per l’infermiere professionale la cui mansione, “assistenza completa all’infermo”, veniva troncata dal legislatore senza alcuna ulteriore specificazione.
L’esegesi giuridica sulla lettura normativa ha indotto gli studiosi a postulare due diverse visioni
sulla condivisa mansione di assistenza al malato, prevedendo, per l’infermiere generico subalterno all’infermiere professionale, l’esecuzione di fatto delle operazioni di assistenza al malato e ogni altra mansione accessoria e strumentale (riassetto del letto, pulizia del malato cioè cure igieniche), mansioni non decise in via autonoma dall’infermiere generico, ma dietro indicazione e disposizione dell’infermiere professionale in quanto responsabile dell’“assistenza completa all’infermo”.
Quindi al professionale era assegnata, nell’ambito dell’assistenza completa all’infermo, non l’esecuzione degli atti di accudimento, ma la responsabilità del controllo e della verifica su quanto ordinato al personale subalterno per l’assistenza al malato.
La tesi acquista maggior credito se si contestualizzano le singole disposizioni normative nell’intero decreto (n. 225/74), assumendo precipuo rilievo la voluntas legislatoris, come previsto dall’art. 12, co. 1 delle preleggi.
Tale interpretazione è stata accolta dalla dottrina (tra tanti, prof. Avv. Nicola Ferraro docente dell’Università Federico II di Napoli e Prof. Avv. Salvatore Carruba dirigente Istituto Superiore di Sanità Roma) che poi verrà meglio esaminata.
Nella rivista del Collegio professionale IP.AS.VI. del gennaio-febbraio 1992, intitolata “L’infermiere” , a pag. 46 l’avvocato Nicola Ferraro scriveva, a proposito delle cure igieniche eseguite sui pazienti allettati, che sulla scorta della giurisprudenza formatasi in materia e sull’attenta esegesi del mansionario, non compete all’infermiere pulire il malato, in quanto operazione meramente manuale rientrante nella sfera di competenza del personale ausiliario.
Comunque già il D.P.R. n. 225/74 prevedeva, nella figura dell’infermiere professionale, una elevata competenza e professionalità (per questo si è voluto chiamarlo col termine di professionale differenziandolo dal generico), perché il suo contenuto professionale non annoverava e non annovera, mansioni meramente esecutive o elementari.
Difatti, solo la figura dell’infermiere professionale è stata oggetto della profonda riforma giuridica che ne ha ridisegnato i contenuti formativi e professionali, mentre quella dell’infermiere generico è rimasta immutata e cristallizzata nell’art. 6 del D.P.R. succitato.
Anche la giurisprudenza ha accolto la tesi della dottrina sul significato di “assistenza completa al malato”; la Suprema Corte, sez. Lav., con sent. n. 1078 del 9 febbraio 1985, confermando ambedue le sentenze di merito e quindi legittimando il licenziamento irrogato ad una ausiliaria che si rifiutò di svolgere dette mansioni attribuendole all’infermiere, stabilì che non compete agli infermieri professionali: “rispondere ai campanelli … utilizzo delle padelle e dei pappagalli … riassetto dei letti”.
Parimenti, come vedremo, in tempi più recenti il Tribunale di Roma, sez. Lav. I grado, sent. n. 2771 del 16 febbraio 2012, ha dichiarato demansionante per l’infermiere professionale la chiusura dei R.O.T. (contenitore contenente i rifiuti ospedalieri collocati nelle infermerie) e il Tribunale Lavoro di Cagliari, con sentenza n. 1287 del 16 agosto 2013, ha riconosciuto il danno professionale da demansionamento a dieci infermieri professionali che avevano riassettato il letto dei pazienti e risposto ai campanelli.
Il demansionamento costituisce un grave pregiudizio alla professionalità e, certamente, una violazione dello ius variandi, ovvero di tutta la normativa che vieta lo svolgimento di mansioni inferiori.
In definitiva, l’infermiere professionale, tra le varie attività assistenziali indirette (cateterismo, fleboterapia, controllo monitor e parametri vitali, ecc.) che deve svolgere personalmente, rileva i bisogni del paziente e pianifica l’assistenza diretta, fornendo specifiche indicazioni all’infermiere generico (ovvero al personale subalterno che oggi lo ha sostituto) affinché esegua le prestazioni igienico-domestico-alberghiere utili all’accudimento del paziente in quanto ricadente sotto la sua responsabilità.
Vi sono anche altre considerazioni da sviluppare che sorreggono la succitata esegesi.
Il Decreto 14 settembre 1994 n. 739 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 09 gennaio 1995 n. 6 – Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’infermiere, ha segnato un ulteriore sviluppo professionale dell’infermiere in quanto ha ridefinito il ruolo come “sanitario”, come quello del medico e non più “socio-sanitario ausiliario”, come quello dell’O.S.S. o dell’O.T.A..
La legge 26 febbraio 1999 n. 42 ha abrogato il mansionario dell’infermiere professionale (D.P.R. 14 marzo 1974 n. 225) ed ha abolito nella denominazione della professione infermieristica l’appendice “ausiliaria” rendendola al pari del medico professione sanitaria, così come prevede l’art. 2229 C.C. (“La legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi”) che definisce la professione intellettuale.
L’art. 2229, applicabile alla categoria infermieristica grazie al D.Lgs. del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946 n. 233 e agli artt. 99 e 100 del T.U. delle Leggi Sanitarie, permette di introdurre l’infermiere nel novero delle locatio operarum cioè delle professioni intellettuali (obbligazioni di mezzi) e non delle locatio operis (obbligazioni di risultato), in cui rientra il personale ausiliario che svolge attività prevalentemente esecutive e manuali.
Per professioni intellettuali si intendono quelle che, seppur la prestazione si concretizzi in un fare materiale, si fondano su conoscenze teoriche o tecniche evolute che rendono l’atto una conseguenza di un processo mentale sorretto da principi e metodi scientifici.
Il D.Lgs. n. 509 del 03 novembre 1999 ha istituito il regolamento dell’autonomia didattica dei corsi universitari per infermieri sacralizzandone la separazione da ogni altra ingerenza estranea alla professione infermieristica, soprattutto da quella medica.
Successivamente il D.M. Università 02 aprile 2001 ha introdotto nei corsi di laurea quello per infermiere e per infermiere pediatrico, creando un percorso di laurea del tutto indipendente rispetto alla gestione medica.
Tali riforme e riconoscimenti di elevata professionalità dell’infermiere non sono assolutamente conciliabili con le attività igieniche del malato e del riassetto del letto (mansioni squisitamente igieniche e alberghiere), né con qualsiasi altra attività che si consumi con la semplice esecuzione di un fare che è patrimonio di qualsiasi persona e non di un professionista preparato, com’è per esempio la pulizia di un carrello.
Non si tratta di mansioni pleonastiche perché l’assistenza diretta al paziente è di fondamentale importanza, ma proprio per questo abbisognano di essere svolte da personale dedicato, evitando di distrarre e sottoutilizzare professionisti preparati per attività più complesse e pericolose.
Le attività elementari che chiunque è in grado di svolgere (si pensi ai parenti del paziente che a casa accudiscono il familiare lavandolo, vestendolo, imboccandolo, cambiando le lenzuola, ecc.), non mutano natura solo per l’ambiente ospedaliero ed anzi, proprio in questo ambiente protetto, per le considerazioni che riguardano la posizione di garanzia e il diritto di affidamento, sono svolte da personale all’uopo preparato come sono appunto gli O.T.A. e gli O.S.S..
Del resto, nello svolgimento delle proprie prestazioni, all’infermiere è richiesta la diligenza qualificata, come prevista dall’art. 1176, co. 2 C.C. e non quella della persona comune di cui al primo comma (homo eiusdem generis et condicionis).
Quindi impegnare un professionista come l’infermiere a svolgere attività casalinghe, significa degradarlo a operaio comune, con evidente lesione alla professionalità acquista e, soprattutto, auspicata da chi ha iniziato un percorso universitario di laurea.
Infatti l’infermiere è abilitato dallo Stato per svolgere le proprie mansioni ed è obbligato a raggiungere ogni anno 50 crediti formativi E.C.M. (Educazione Continua in Medicina, giusto art. 16-ter, co. 2, D.Lgs. 19 giugno 1999 n. 229, non prevista per il personale ausiliario), mentre i parenti che svolgono attività di assistenza diretta lo fanno senza essere né laureati, né abilitati, né iscritti all’albo professionale, né provati sotto il profilo tecnico e scientifico sanitario, ma ciò non li pone rei di abusivismo della professione infermieristica!
E’ sufficiente tale ragionamento logico per comprendere che gli atti di accudimento semplice del malato non rientrano assolutamente nelle competenze dell’infermiere per le quali lo Stato esige l’abilitazione.
La verità è che in Italia, il retaggio paternalistico e missionario di tipo clericale che ha caratterizzato sin dal 1956 la Federazione IP.AS.VI., per via della presenza di suore in seno al Consiglio Nazionale, fino addirittura alla reggenza della presidenza 1982-1985 di Suor Odilia D’Avella, ha cristallizzato il vecchio stereotipo dell’infermiere tuttofare, dedito alle carezze e alla compassione, che nonostante l’evoluzione tecnologica del sapere scientifico ha resistito al processo di professionalizzazione qui richiamato e che negli altri paesi europei ha trovato invece energici sostegni, consentendo di riformare realmente la professione infermieristica.
La Legge 01 febbraio 2006 n. 43 – Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie – prevede all’art. 1, co. 1: “Sono professioni sanitarie infermieristiche … quelle previste ai sensi della legge 10 agosto 2000, n. 251, e del decreto del Ministro della sanità 29 marzo 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 23 maggio 2001, i cui operatori svolgono, in forza di un titolo abilitante rilasciato dallo Stato, attività di prevenzione, assistenza, cura o riabilitazione”.
L’art. 3 provvede a convertire in ordine professionale il Collegio Infermieri, cosa avvenuta.
A livello internazionale, come in Italia, la Scienza Infermieristica è stata riconosciuta nei corsi di laurea; introdotta con legge n. 1 del 2002 e regolamentata nel 2004 con Decreto MIURST del 01
ottobre n. 270, consente all’infermiere di essere collocato contrattualmente in categoria D (propria delle professioni laureate del Comparto).
Non vi è dubbio che la professione dell’infermiere non è mai stata limitata a mere attività elementari, ma è fondata da presupposti scientifici ed intellettuali e si è sviluppata, almeno sul piano teorico, al pari di quella europea, verso una migliore utilizzazione della progettualità assistenziale fino a conquistare un modello autonomo ed indipendente nel novero delle professioni sanitarie.
L’aggiornamento professionale scientifico e tecnico, obbligatorio e continuo, chiude la recente evoluzione professionale dell’infermiere riconoscendone un ruolo di primaria importanza nel panorama sanitario italiano, oltre che europeo, e pone l’infermiere in posizione centrale nella prevenzione e nella cura delle malattie.
La valutazione della professionalità infermieristica non deve quindi essere riduttiva rispetto alle categorie professionali, come quella medica, che storicamente hanno da sempre detenuto posizioni centrali e direttivi.
Non si dimentichi che ora, anche all’infermiere è riconosciuta la carriera fino alla dirigenza e già partecipa attivamente con le altre figure sanitarie al raggiungimento della salute collettiva.
In conclusione, se quanto qui riportato non è falso, manipolatorio e filosofico, dobbiamo presumere che chiunque ritenga deficienti tutti i magistrati e gli avvocati e lo stesso diritto italiano, abbia solo una cosa molto grande: la propria testa di cazzo!
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