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Condannato il dirigente medico che esercita attività extra-istituzionali

   Commento a Sentenza Cass. sez. lavoro n. 20881 21 agosto 2018

Nell’impiego pubblico contrattualizzato il principio dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare esclude che, l’inerzia del datore di lavoro nell’esercitarla, possa far sorgere un legittimo affidamento della liceità della condotta del dipendente, ove la stessa sia in contrasto con i precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dalla contrattazione collettiva.

La Corte di Appello di Firenze ha respinto il reclamo avverso la sentenza del Tribunale di prime cure della medesima città che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza emessa e rigettato il ricorso del medico della Croce Rossa Italiana, volto all’annullamento del licenziamento intimatogli in data 28 novembre 2014, con la condanna al pagamento delle indennità risarcitoria prevista dall’art. 18, comma 4, della L. n. 300/1970.

La Corte di Appello ha premesso che la sanzione disciplinare era stata inflitta, poiché negli anni 2011 e 2012 aveva svolto, senza la preventiva autorizzazione del datore di lavoro, l’incarico di medico penitenziario, percependo la somma annua di € 100.000,00.

La Corte ha altresì evidenziato che il ricorrente non poteva invocare la speciale disciplina dettata dall’art. 3 della L. n. 740/1970, poiché lo stesso non era in rapporto con la struttura penitenziaria, bensì con la Croce Rossa Italiana, a carattere di esclusività, pertanto avrebbe dovuto richiedere preventivamente l’autorizzazione a svolgere altri incarichi.

La Corte di Appello ha poi escluso la tardività della contestazione disciplinare ed ha inoltre rilevato che la missiva del febbraio 2000 dell’appellante si era limitata a richiedere solamente notizie sulle regole di condotta da rispettare nello svolgimento di incarichi extraistituzionali, pertanto, dallo scambio epistolare, non si poteva desumere alcuna tolleranza del datore di lavoro rispetto ad una eventuale incompatibilità.

Inoltre, sempre la Corte di Appello, ha ritenuto del tutto proporzionata la sanzione espulsiva comminata al dirigente medico, evidenziando che le fattispecie tipizzate dall’art. 55 quater del D.Lgs. 165/2001 non costituiscono un numerus clausus, in quanto lo stesso legislatore ha mantenuto ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, facendo salve anche le ipotesi previste dai CCNL. Il dirigente medico aveva svolto incarichi in numero elevato, producendo redditi consistenti, pur essendo consapevole della necessità di avere l’autorizzazione, circostanza documentata appunto dalla richiesta di chiarimenti dell’anno 2000. Infine ha ritenuto irrilevante che la stessa Amministrazione avesse archiviato il successivo provvedimento disciplinare per incarichi svolti negli anni 2014-15, ossia l’anno successivo alla trasformazione dell’ente Croce Rossa, determinando così il venir meno del divieto di cumulo.

Il dirigente medico ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di 4 motivi ai quali la Croce Rossa si è opposta con ricorso incidentale:

  1. la presunta violazione dell’art. 2 della L. n. 740/1970 nella parte in cui prevede che “a tutti i medici che svolgono a qualsiasi titolo attività in ambito degli istituti penitenziari non sono applicabili le incompatibilità e le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il servizio sanitario” Il ricorrente sostiene che la finalità della norma in oggetto è quella di agevolare l’accesso all’esercizio di una attività particolarmente gravosa (medico penitenziario) sicchè non poteva la norma riferirsi solo all’ambito soggettivo dell’amministrazione  penitenziaria;

  2. il ricorrente denuncia falsa applicazione dell’artt. 7 L. n. 300/70, 1175 e 1375 c.c. per aver la Corte di Appello con la sentenza impugnata, erroneamente respinto l’eccezione di tardività della contestazione disciplinare e/o l’abdicazione della Croce Rossa ad esercitare tale azione, desumendo dal tenore delle lettere intercorse tra il dirigente e l’ente, la volontà di quest’ultimo di tollerare lo svolgimento di altri incarichi poiché la lettera faceva intendere che l’incompatibilità fosse già in atto;

  3. il ricorrente ritiene che la sanzione espulsiva non fosse proporzionata alla gravità della condotta addebitata avendo valutato tutti gli aspetti soggettivi e oggettivi dell’illecito disciplinare e non solo l’entità degli importi percepiti;

  4. con l’ultimo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia violazione di legge poiché il datore di lavoro non aveva assolto all’onere della prova, non avendo dimostrato l’idoneità della condotta a ledere il vincolo fiduciario e che il CCNL non prevede in merito la sanzione espulsiva.

Il ricorso incidentale del datore di lavoro indica che la norma richiamata nel ricorso principale è riferibile solo ai medici incaricati ammessi all’incarico, previo espletamento di una procedura concorsuale, non trovando applicazione nel caso di specie in cui l’incarico è conferito dal direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 50 della stessa legge. Il Dott. X non aveva dimostrato di aver sottoscritto il contratto previo superamento di un regolare concorso indetto dal Ministero di Giustizia; solo per questo le doglianze del ricorrente avrebbero dovuto essere escluse, dovendosi attenere esclusivamente al dettato normativo dell’art. 53 D.lgs 165/2001.

La Suprema Corte decide quindi per l’inammissibilità e infondatezza del ricorso per i seguenti motivi:

  1. la stessa Corte ha più volte affermato che le prestazioni rese dai medici incaricati presso gli istituti di prevenzione e pena non integrano un rapporto di pubblico impiego, ma una prestazione di opera professionale caratterizzata dagli elementi tipici della para-subordinazione (Cass. S.U. 12618/98 e Cass. S.U. n. 7901/2003), che trova la propria fonte normativa nel complesso delle disposizioni contenute nella legge n. 740/70, la quale si pone come norma speciale (Cass. n. 3782/12 e Cass. n. 10189/17). L’art. 2 citato dal ricorrente  è indirizzato a rimarcare la non assimilabilità dello stesso al pubblico impiego e quindi esclude l’applicazione, non solo delle norme riferibili al regime delle incompatibilità, ma anche in genere all’intera disciplina dettata per gli impiegati civili dello stato. La disposizione quindi è volta a disciplinare il rapporto tra il sanitario e l’amministrazione penitenziaria ed esclude l’obbligo di esclusività al fine di estendere la platea dei possibili aspiranti all’incarico, ma non conferisce al medico incaricato di cumulare l’incarico con qualsiasi altra attività prescindendo dai requisiti che richiede il legislatore per quest’ultima.  Il distinto rapporto che si evidenzia resta soggetto alle sue regole proprie: ove lo stesso sia caratterizzato da esclusività, l’obbligo resta immutato e non rileva che l’incarico ulteriore che si pretende sia conducibile alla previsione della L. n. 740/1970. Il medico legato alla pubblica amministrazione con rapporto di impiego a tempo indeterminato, è tenuto al rispetto dell’art. 53 del D.lgs. n. 165/2001, che richiama il regime delle incompatibilità e il divieto di cumulo di cui al D.P. R. n. 3/1957; sicchè non ci si può sottrarre alle conseguenze derivanti dalla violazione del divieto facendo leva sulla disciplina dettata ad altri fini dal menzionato art. 2 della L. n. 740/70 che la Corte di Appello ha ritenuto non applicabile alla fattispecie;

  2. anche il secondo motivo è inammissibile, la Corte di Appello esaminando la corrispondenza intercorsa tra il ricorrente e l’ente datore di lavoro, ha escluso che il contenuto della missiva consentisse di avere certezza dello svolgimento di incarichi extraistituzionali ed ha poi aggiunto che, la conoscenza dei fatti per i quali si è poi proceduto alla relativa sanzione disciplinare, risaliva all’agosto 2014, epoca nella quale l’Agenzia delle Entrate aveva comunicato i redditi percepiti aliunde all’azienda datrice di lavoro. Inoltre Cassazione intende dare continuità all’orientamento della Corte di Appello sulla violazione del divieto di cumulo di incarichi, evidenziando che “nell’impiego pubblico contrattualizzato, il principio di obbligatorietà dell’azione disciplinare, esclude che l’inerzia del datore di lavoro possa far sorgere il legittimo affidamento nella liceità della condotta, ove la stessa contrasti con precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dalla contrattazione collettiva”. Analizzate quindi le disposizioni del D.lgs. 165/2001 e del D.lgs. 150/2009, dalle quali si desume l’obbligatorietà dell’azione disciplinare, si è evidenziato che nel rapporto di dipendenza delle pubbliche amministrazioni, l’inerzia nella repressione di comportamenti disciplinarmente rilevanti, può solo rilevare ai fini della decadenza dell’esercizio dell’azione, ove questa comporti  il mancato rispetto dei termini perentori imposti dal legislatore, ma non potrà mai far sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta vietata, poiché il principio di affidamento incolpevole presupporrebbe che il  potere del datore di lavoro risulti discrezionale, in modo che l’inerzia dello stesso possa essere interpretata come rinuncia all’esercizio del potere medesimo e come liceità della condotta.

I doveri posti a carico del dipendente pubblico dalla legge, dal codice di comportamento e dai CCNL, tengono conto della particolare natura del rapporto che pone l’impiegato pubblico al “servizio della nazione” e quindi lo impegna a ispirare la propria condotta ai principi previsti nell’art. 54 del D.lgs. n. 165/2001, con il richiamo ai doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico”.

La violazione quindi di detti doveri, non può essere scriminata dalla colpevole inerzia del soggetto tenuto alla segnalazione dell’illecito, inerzia che lascia inalterata la rilevanza disciplinare della condotta;

  1. da ultimo, ritenuto provato lo svolgimento di attività incompatibili con il rapporto di lavoro di impiego pubblico, la Corte ha ravvisato che, per la sua gravità, la condotta era idonea a ledere il rapporto fiduciario e a tal fine, ha considerato sia gli aspetti oggettivi dell’illecito (durata, numero incarichi, redditi), sia il profilo soggettivo, rilevando che la corrispondenza avvenuta tra le parti, lungi dal provare la buona fede del Dott. X, dimostrava al contrario come lo stesso fosse ben consapevole del regime di incompatibilità, tanto che per gli altri incarichi aveva provveduto ad inoltrare all’ente richiesta di autorizzazione.

Non vi è dubbio che la reiterata violazione dell’obbligo imposto dall’art. 53 del D.lgs n. 165/2001, il quale riconosce al comma 7, rilevanza disciplinare, possa giustificare il recesso, poiché, come già evidenziato, l’obbligo di esclusività ha particolare rilievo nella disciplina che trova fondamento nell’art. 98 Cost., che prevede che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione, sottraendo il pubblico dipendente da condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività (Cass. n. 28797 del 2017; Cass. n. 8722/2017; Cass. n.  28975/2017).

Il ricorso viene quindi rigettato con la condanna del ricorrente alle spese del giudizio liquidate come da dispositivo.

La sentenza in oggetto fa chiarezza su una prassi che spesso viene utilizzata da una parte della dirigenza medica, ossia quella di esercitare una doppia attività pur se in rapporto esclusivo con l’ente o l’azienda ospedaliera, nella convinzione della non incompatibilità con il lavoro del pubblico impiego. 

La Cassazione chiarisce che in realtà vige anche per il dirigente medico il vincolo di esclusività (come per ogni impiegato pubblico) e che qualsiasi attività egli voglia svolgere dovrà necessariamente esse preventivamente autorizzata, a nulla sono valse le esimenti invocate dall’appellante convinto della legittimità del suo operato.

Non solo, ciò su cui pone l’accento la Cassazione è che in ogni caso, pur se non sussiste una incompatibilità assoluta, questa deve essere avvalorata attraverso una esplicita istanza da parte del dirigente medico all’amministrazione di appartenenza di voler effettuare una attività extra oltre a quella istituzionalmente prevista.

La formalità della richiesta, se approvata, fa venire meno la violazione dell’art. 53 del D.lgs. n 165/2001.

  Dott. Carlo Pisaniello 

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