Con la sentenza n. 1012 del 2019 la Corte di Appello in funzione di giudice del lavoro rigetta il ricorso proposto da un infermiere che aveva portato in giudizio la propria ASL datrice di lavoro per vedersi riconosciuto il pagamento della tassa dell’Ordine infermieristico OPI.
Senza entrare nel merito della richiesta del rimborso OPI, che alcuni giudici dichiarano essere in capo al datore di lavoro ed altri al lavoratore, quello che invece qui interessa è la conclusione a cui sono giunti alcuni “giornalisti” della stampa infermieristica in alcuni loro articoli, i quali, errando, hanno dato per finito il vincolo di esclusività del dipendente pubblico con la conseguente opportunità per costoro di poter svolgere in contemporanea altre attività per strutture private o la libera professione diverse dal proprio datore di lavoro. Ma così non è, magari lo fosse.
Di seguito si allegheranno gli stralci della sentenza incriminata che mostrano come la Corte di Appello sia caduta in errore considerando il personale del comparto che svolge attività in intramoenia o in prestazioni aggiuntive alla stessa stregua del personale dirigente, unico per sonale a cui è consentito previa scelta da apporre sul contratto di lavoro se optare per l’intramoenia o attività intramuraria e l’extramoenia, per altro, con rispettive decurtazioni di stipendio, ovvero, con incentivi anche cospicui se si opta per l’eclusività.
Già dal primo screen shot si evince da dove parta l’errore, il vincolo di esclusività per il personale del comparto, a differenza della dirigenza medica e non medica, non è affatto temperato dalla possibilità per costoro di poter dare la loro prestazione a favore di soggetti pubblici e privati e ce lo dice la in primis la costituzione e a seguire il DPR n. 3/1957 e il D.lgs n. 165/2001 come di seguito riportati. Non solo, le prestazioni aggiuntive, come indicate ex adverso dalla parte resistente nelle loro memorie di comparsa, non sono prestazioni extra-lavorative, intese come attività prestate ad un altro datore di lavoro, ma sono comunque prestate sempre al medesimo datore di lavoro, ma come esplicitamente indicato nella norma di riferimento, il decreto-legge 12 novembre 2001, n. 402, convertito in legge n. 1, 8 gennaio 2002, che all’art. 1, comma 3 e ss. Rubricato come “Prestazioni aggiuntive programmabili da parte degli Infermieri professionali dipendenti ed emergenza infermieristica” che sancisce;
3. Sono ammessi a svolgere prestazioni aggiuntive gli infermieri dipendenti dalla stessa Amministrazione, in possesso dei seguenti requisiti:
essere in servizio con rapporto di lavoro a tempo pieno da almeno sei mesi;
essere esenti da limitazioni anche parziali o prescrizioni a mansioni come certificate dal medico competente;
non beneficiare, nel mese in cui è richiesta la prestazione aggiuntiva, di istituti normativi o contrattuali che comportino la riduzione, a qualsiasi titolo, dell’orario di servizio, comprese le assenze per malattia.
Al successivo comma 4 viene chiarito il motivo di tale prestazione, ossia; 4. L’Amministrazione interessata utilizza in via prioritaria le prestazioni aggiuntive per garantire gli standard assistenziali nei reparti di degenza e l’attività delle sale operatorie. Quindi sono prestazioni che vengono erogate sempre per la medesima azienda datrice di lavoro, soltanto con una retribuzione oraria paragonabile a quella prestata in regime di attività libero professionale, ma niente più.
E’ evidente quindi che il giudice di Appello nell’emanare la sentenza ha commesso un madornale errore, si è fatto convincere dalla tesi difensiva della Asl immaginando che come per i dirigenti, all’infermiere fosse data l’opportunità di praticare attività privata in ospedale, ovvero, di poter lavorare presso altre strutture in concorrenza con la azienda di appartenenza.
Ma così non è, infatti è la stessa disposizione normativa che lo chiarisce “infermieri dipendenti dalla stessa Amministrazione” quindi non si tratta di fare attività per altre strutture ma semplicemente di poter svolgere fuori dall’orario di lavoro istituzionale attività extra oraria pagata ad un costo orario molto maggiore rispetto alla paga oraria contrattualmente prevista. Per altro all’art 2 della stesso DL si legge ….omissis.. possono remunerare agli infermieri dipendenti in forza di un contratto con l’azienda prestazioni orarie aggiuntive rese al di fuori dell’impegno di servizio, rispetto a quelle proprie del rapporto di dipendenza; tali prestazioni sono rese in regime libero professionale e sono assimilate, ancorché rese all’amministrazione di appartenenza, al lavoro subordinato, ai soli fini fiscali e contributivi ivi compresi i premi e i contributi versati all’INAIL. Continua.
L’errore è stato dell’avvocato dell’appellante che non ha saputo ben argomentare il fatto che al proprio assistito fosse del tutto esclusa qualsiasi forma di attività privata o esterna all’azienda datrice di lavoro, per altro, va segnalato che l’attività intramoenia non è fatta di iniziativa dal personale del comparto ma solo in equipe con la dirigenza e solo in funzione di supporto di questa, un’altra forma di sudditanza che gli infermieri accettano convinti di essere richiesti per la loro competenza e non invece per il fatto che senza personale infermieristico molte attività potrebbero essere svolte lo stesso dal medico ma con enorme difficoltà ( a parte alcuni casi di interventi chirurgici svolti in intramoenia).
Orbene, è chiaro quindi che il vincolo di esclusività permane ed il fatto che per ragioni legate all’emergenza infermieristica, nel lontano 2002 fosse stata introdotta una normativa ad hoc per il loro reclutamento, non significa che de plano il vincolo di esclusività del dipendente pubblico sia stato rimosso. Vediamo perché esiste il vincolo di esclusività, questo deriva dalla necessità di preservare i principi di buon andamento della pubblica amministrazione e di esclusività della prestazione del pubblico dipendente, entrambi costituzionalmente previsti, rispettivamente, agli artt. 97, comma 1 e 98, comma 1 Cost., in modo da rendere tutti i rapporti di lavoro dei comparti del pubblico impiego omogenei.
L’art. 98 Cost. specifica chiaramente che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione” sancendo così il principio di esclusività del rapporto di lavoro, mentre l’art. 97 Cost. sancisce il principio di buon andamento della pubblica amm.ne attraverso i doveri di fedeltà e di diligenza.
L’art. 60 del D.P.R. n.3 del 1957, rubricato come “incompatibilità” sancisce che “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, ne’ alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”.
Ancora, l’art. 53 del D.lgs n. 165/2001 “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” sancisce la “Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi (Art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993, come modificato prima dall’art. 2 del decreto legge n. 358 del 1993, convertito dalla legge n. 448 del 1993, poi dall’art. 1 del decreto legge n. 361 del 1995, convertito con modificazioni dalla legge n. 437 del 1995, e, infine, dall’art. 26 del d.lgs n. 80 del 1998 nonché dall’art. 16 del d.lgs n. 387 del 1998)”.
Sono tutte norme derivanti dal fatto che i nostri Costituenti, nel prevedere che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” hanno voluto rafforzare il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., sottraendo così tutti coloro che svolgono un’attività lavorativa “alle dipendenze” delle Pubbliche Amministrazioni dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività (Cass. n. 12626 del 2020; n. 11949 del 2019; n. 3467 del 2019; n. 427 del 2019; n. 20880 del 2018; n. 28975 del 2017; n. 28797 del 2017; n. 8722 del 2017).
In merito ci sono decine di sentenze di cassazione, visto che oramai la quaestio iuris è stata più volte risolta in senso confermativo, ossia è oramai ius receptum. Pertanto la sentenza appellata è in palese violazione di legge, cosa che avrebbe dovuto far notare l’avvocato dell’appellante, ad esempio; Cass. n. 31277/2019 “La normativa sul pubblico impiego prevede il dovere di ‘esclusività del dipendente pubblico, il quale è obbligato a riservare all’ufficio di appartenenza tutte le sue energie lavorative, con espresso divieto, salve limitate tassative eccezioni, di svolgere attività imprenditoriale, professionale o di lavoro autonomo, nonché di instaurare rapporti di lavoro alle dipendenze di terzi o accettare cariche o incarichi in società o enti che abbiano fini di lucro”.
Lo stesso art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 rappresenta la norma generale sulla materia, tale disposizione, che si applica a tutti i dipendenti pubblici, al primo comma, di recente novellata in esito alla legge n. 190/2012 per la prevenzione e la repressione della corruzione nella Pubblica Amministrazione e arricchita con il d.lgs. n. 39/2013 in tema d’incompatibilità e inconferibilità degli incarichi, oltre che dal D.P.R. n. 62/2013, recante il nuovo codice di condotta del pubblico dipendente. Ulteriori modifiche sono state apportate dal d.lgs. n. 75/2017 c.d. legge Madia (Modifiche e integrazioni al testo unico del pubblico impiego) con riferimento agli incarichi conferiti successivamente al 10 gennaio 2018, ma il primo comma dell’art. 53 sopra ricordato è rimasto inalterato.
La legge n. 412/1991, n. 412 (fatta espressamente salva dall’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, insieme con le disposizioni integrative contenute nell’art. 1, comma 9, del d.l. n. 510/1992) ha introdotto il principio del rapporto unico di lavoro con il servizio sanitario nazionale (art. 4, comma 7). E’ stata così espressamente sancita l’incompatibilità con:
a) ogni altro rapporto di lavoro dipendente, pubblico o privato;
b) altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale;
c) l’esercizio di altre attività che possono configurare conflitto di interessi con il servizio sanitario nazionale;
d) la titolarità o la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con il servizio sanitario nazionale.
Unica eccezione è quindi rappresentata, rispetto al regime generale, dallo svolgimento della libera professione consentito, fuori dell’orario di lavoro e in strutture non convenzionate del servizio sanitario nazionale a tutti i dipendenti medici, indipendentemente dal loro orario (l’ambito di applicazione dell’eccezione è stato ritenuto costituzionalmente legittimo in considerazione della natura e delle funzioni integrative e sussidiarie svolte dalla istituzioni sanitarie private convenzionate: v. Corte Cost. n. 457/1993; Corte Cost. n. 214/1994; Corte Cost. n. 450/1994).
Ovvero, nei casi di rapporto di lavoro a tempo parziale, questa facoltà è concessa anche per il personale del comparto, ma con delle limitazioni; Cass. n. 429/2019 “L’applicazione della regola generale – secondo la quale dipendenti con rapporto part-time entro il 50% dell’orario ordinario possono svolgere un’altra attività lavorativa, sia come dipendenti (ma non con una Amministrazione pubblica), sia come lavoratori autonomi o professionisti (salvo il particolare regime vigente per gli avvocati), presuppone che: a) tali attività non comportino un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio del dipendente, pregiudicando l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente; b) l’interessato comunichi tempestivamente all’Amministrazione di appartenenza il tipo di attività privata che intende svolgere (il che agevola il controllo in merito al conflitto di interessi) (Cass., n. 3622 del 2018).
In conclusione, il personale del comparto non può svolgere attività di tipo libero professionale in nessun caso, è consentita tale attività solo in caso di part time al 50%, evitate quindi di tuffarvi in illusorie manifestazioni di giubilo che sono ad oggi del tutto fuori luogo.
Dott. Carlo Pisaniello
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