La Corte di Appello di Milano con la sentenza n. 292 del 6 maggio 2014, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato il diritto dell’appellante a scegliersi la sede di lavoro più vicina al comune del domicilio della sorella invalida che necessita di assistenza. Ordinando alla società X il trasferimento del dipendente presso la sede del comune indicato dall’appellante.
La Corte di Appello richiamando la giurisprudenza di legittimità più recente (Cass. n. 3896/2009; n. 28320/2013) ha ritenuto, diversamente dalle statuizioni del giudice di prime cure che, l’art. 33, comma 5, L. 104/92, modificato dalla L. n. 53 del 2000 e ancora dalla L. n. 183 del 2010 (c.d. collegato lavoro) non dovesse trovare applicazione solo nella fase genetica del rapporto rispetto alla scelta della sede di lavoro, ma anche in ipotesi di domanda di trasferimento proposta successivamente dal lavoratore.
Sottolineando come per l’effetto dell’art. 24, L. 183/2010 non fossero più richiesti i requisiti di continuità ed esclusività dell’assistenza in favore del familiare bisognoso, previsti invece dall’art. 33, comma 5 L. n. 104/92 dopo le modifiche apportate dagli artt. 19 e 20, L. n. 53/2000, inoltre, ha rilevato come in base al testo vigente all’epoca della domanda di trasferimento, chiesta dal lavoratore in data del 2011, dovesse aversi riguardo non al domicilio del lavoratore bensì a quello della persona da assistere.
Avverso la sentenza dei Appello proponeva ricorso per cassazione l’azienda datrice di lavoro.
Con il primo motivo segnatamente alla violazione dell’art. 360, comma 1 e 3 c.p.c. e falsa applicazione dell’art. 33, comma 5, L. 104/92 , sostenendo che, il succitato articolo potesse trovare applicazione solo nelle ipotesi nella scelta della prima sede di lavoro e non anche laddove la continuità dell’assistenza fosse stata interrotta con l’assegnazione della sede lavorativa ed il dipendente mirasse a ripristinarla attraverso un trasferimento.
Secondo la ricorrente società l’art. 24, L. n. 183 del 2010 avrebbe modificato solo la disciplina dei permessi di cui al comma 3, dell’art. 33 e non anche la previsione di cui al comma 5 e che il requisito della continuità nell’assistenza al familiare disabile, sebbene formalmente eliminato, costituisse comunque presupposto della nuova disciplina. Questa nel prevedere l’assistenza al “portatore di handicap di elevata gravità” richiama implicitamente i requisiti dell’assistenza “permanente continuativa e globale” e che ulteriore requisito ai fini del comma 5, fosse l’esclusività dell’assistenza, nel caso di cui trattasi, non dimostrata dal lavoratore.
Inoltre, deduce che, il diritto al trasferimento non sarebbe, comunque, incondizionato ma bensì, come previsto dall’inciso “ove possibile” soggetto a bilanciamento con le esigenze organizzative e produttive dell’azienda.
Vieppiù che, la posizione dell’appellante di scegliere la propria sede di lavoro non è qualificabile come un diritto soggettivo, bensì come un interesse legittimo e quindi la scelta del giudice di Appello si porrebbe in un insanabile contrasto con il potere datoriale tutelato dall’art. 41 Cost..
Con l’ultimo motivo di ricorso, la società datrice di lavoro contesta le statuizioni del giudice territoriale secondo cui “le procedure di mobilità volontaria non possono pregiudicare l’esercizio di un diritto quale quello attribuito dalla L. 104/92 prevista a tutela della persona disabile”, in quanto indicativa della confusione tra interesse legittimo e diritto soggettivo.
La Corte di Cass. analizzati i motivi di ricorso deduce quanto segue.
Questa Corte (Cass. n. 28320/10; n. 3896/09) in riferimento all’art. 33, comma 5, L. 104/92 nel testo anteriore alle modifiche di cui alla L. n. 53/2000, ha statuito come la norma di cui alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 33, comma 5, sul diritto del genitore o del familiare lavoratore “che assista con continuità un parente o un affine fino al terzo grado di parentela handicappato” di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, è applicabile non solo all’inizio del rapporto di lavoro, ma anche nel corso del rapporto mediante domanda di trasferimento. La ratio della norma è infatti quella di favorire l’assistenza al parente o affine handicappato, ed è irrilevante se tale esigenza sorga nel corso del rapporto o se sia già presente all’inizio dello stesso.
Tale interpretazione si impone a maggior ragione dopo le modifiche avvenute ad opera della L. n. 53/2000 che ha eliminato il requisito della convivenza tra il lavoratore e il familiare handicappato, e poi, con l’art. 24 della L. n. 183/2010 che è intervenuto sull’art. 20, comma 1, della L. n. 53/2000 eliminando i requisiti della “continuità e dell’esclusività” dell’assistenza prestata.
L’art. 33, comma 5, L. 104/92 che risulta quindi all’esito dei succitati interventi legislativi ed applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, è formulato nel seguente modo; “il lavoratore di cui al comma 3 (pubblico o privato, che assiste la persona con handicap in situazione di gravità) ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.
Come si evince dalla espressione letterale, la disposizione in esame, non contiene una espressa e specifica indicazione alla scelta iniziale della sede di lavoro e risulta quindi applicabile anche alla scelta che occorresse successivamente attraverso una specifica domanda di trasferimento, nè la dizione letterale adoperata nel citato comma 5, implica una scelta preesistente dell’assistenza in favore del familiare rispetto alla sede lavorativa (anche a seguito di trasferimento) in quanto, al lavoratore è riconosciuto il diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio del familiare handicappato.
La scelta quindi adottata dalla Corte di merito risulta del tutto coerente con il tenore normativo e letterale del citato art. 33, comma 5, L. n. 104/92, ma vieppiù che, appare del tutto compatibile con le esigenze di tutela di rilievo costituzionale connesse alla condizione della persona disabile grave.
Le previsioni di cui al citato articolo rientrano nel novero delle agevolazioni riconosciute quali espressione dello stato sociale in favore di coloro che si occupano dell’assistenza dei soggetti portatori di handicap (Corte Cost. n. 213 del 2016; n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005).
L’assistenza al disabile ed in modo particolare il soddisfacimento delle esigenze di socializzazione in tutte le sue modalità esplicative, costituiscono fattori di sviluppo della personalità e idonei strumenti di tutela della salute del portatore di handicap, intesa nella sua accezione più ampia di salute psico-fisica (Cost. n. 213 del 2016; n. 158 del 2007 e n. 350 del 2003).
Il diritto alla salute psico-fisica comprensivo dell’assistenza e della socializzazione va dunque garantito e tutelato al soggetto con handicap in situazione di gravità, sia come singolo, che come facente parte di una formazione sociale per la quale ai sensi dell’art. 2 Cost. deve intendersi “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di valorizzazione del modello pluralistico”(Corte Cost. n. 213 del 2016; n. 138 del 2010).
Circoscrivere quindi l’agevolazione in favore del familiare della persona disabile al solo momento della scelta iniziale della sede di lavoro, come preteso dalla società ricorrente, equivarrebbe a tagliare fuori dall’ambito di tutela tutti i casi di sopravvenute esigenze di assistenza, in modo del tutto irrazionale e con la compromissione dei beni fondamentali richiamati dalle pronunce della Corte Cost.
Ferma poi la qualificazione come diritto soggettivo del lavoratore, non vi è dubbio che tale diritto non sia incondizionato (ove possibile) ma debba essere oggetto di un bilanciamento con altri diritti e interessi del datore di lavoro ai sensi dell’art. 41 Cost.
Tale bilanciamento dovrà comunque valorizzare le esigenze di assistenza e di cura del familiare handicappato, con il solo limite del delle esigenze tecniche, organizzative e produttive, allegate e comprovate da parte datoriale, non solo effettive ma anche suscettibili di essere diversamente soddisfatte. La Corte di merito si è attenuta a tali criteri sicché non può essere ravvisata nessuna violazione dell’art. 41 Cost. e dell’art. 2082 c.c..
La Corte di Appello poi, ha correttamente addebitato alla società datrice di lavoro, l’onere di dimostrare l’impossibilità di assegnare il dipendente alle sedi in cui risultavano posti disponibili per lo svolgimento delle mansioni proprie.
Per tali ragioni il ricorso va respinto, le spese di lite seguono la soccombenza.
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