Il comune di una provincia Calabrese ha più volte trasferito e cambiato mansione ad un dipendente –vigile urbano- spostandolo dal comando dei vigili urbani al ruolo di istruttore amministrativo, poichè connesso ad un giudizio di inidoneità alla mansione specifica, decisione presa direttamente dalla giunta comunale anziché dal dirigente amministrativo preposto.
La Corte territoriale adita dal ricorrente dichiara la delibera comunale illegittima in quanto la variazione della qualifica non era rispettosa del dettato di cui all’art. 2103 c.c. ius variandi, in quanto il lavoratore era stato adibito non a mansioni equivalenti, bensì demansionanti, creando un reale “svuotamento di fatto, delle mansioni” ed era stato per altro lasciato inattivo e senza compiti o gli erano stati affidati compiti ridottissimi.
Riammesso nella qualifica di pertinenza, ma solo dopo essere passato attraverso un calvario di quasi un anno e mezzo, venne poi ritrasferito e destinato ai servizi cimiteriali, con sede stabilita presso il cimitero ed accompagnato in servizio dal funzionario comunale che gli aveva comunicato che da quel giorno in poi, quella sarebbe stata la sua sede di lavoro. Il comune chiamato a costituirsi in giudizio dal ricorrente non aveva dato nessuna specificazione circa le attività che avrebbe dovuto svolgere il lavoratore presso quella sede, posto che non vi era nessuno sportello aperto al pubblico, né tantomeno poteva coordinarsi con altri colleghi poiché in quella sede non c’era nessuno al di fuori di lui.
Inoltre la stanza dove era stato collocato sembrava più una camera mortuaria che un ufficio, “un luogo igienicamente non adeguato, non conforme alle regole basilari sulla sicurezza dei luoghi di lavoro oltre che, lesivo della dignità umana”.
Sono state provate dal lavoratore sia la prolungata inattività, sia le situazioni mortificanti, quali l’essere lasciato senza scrivania, sedia e costretto a sostare nel corridoio in piedi, in un luogo giudicato indecoroso per la funzione e per la dignità umana.
Appare per altro estremamente rilevante l’isolamento a cui conduce il mobbing anche rispetto ai colleghi di lavoro, che allontanavano il soggetto scomodo temendo a loro volta di essere oggetto di ritorsione datoriale, dimostrato anche dal silenzio tenuto da molti dei colleghi durante il processo.
Tutte queste attività hanno provocato nel lavoratore una sindrome reattiva di grado medio, fonte di danno biologico, concorrente con il danno di immagine e alla professionalità, derivanti anche dal demansionamento e dalle azioni dell’amministrazione che nell’insieme avevano assunto il carattere del mobbing.
Ricorre alla Suprema Corte il comune per cassare la sentenza di merito della Corte territoriale, ma la Suprema Corte dichiara il ricorso infondato per una serie di motivi; esiste l’illegittimità dell’atto posto in essere dal comune che di fatto demansionava il dipendente, per altro già ampiamente motivato dalla corte territoriale, infatti, ha ampiamente dimostrato che il lavoratore venne prima relegato a compiti meramente esecutivi non riconducibili al profilo professionale e addirittura di qualifica inferiore e successivamente venne poi privato del tutto delle mansioni. Il lavoratore non venne adibito a mansioni proprie neanche del profilo professionale variato, a seguito del 2103 c.c.. Inoltre, la sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere costituisce ipotesi vietata nell’ambito del pubblico impiego.
Bene ha fatto, dichiara la Suprema Corte, la Corte territoriale nel ricostruire alla stregua delle risultanze testimoniali e documentali i numerosi atti a configurare, nel loro concorso, il mobbing lavorativo.
Deve ritenersi che ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo debbano ricorrere: a)una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Ne consegue che deve essere risarcito il danno all’immagine e alla professionalità e quello biologico patito dal lavoratore laddove lo stato di forzosa inattività è stato preordinato e voluto dal datore di lavoro e realizzato per il tramite del dirigente per finalità ritorsive, avendo il dipendente dato luogo a rimostranze, prima in sede extragiudiziaria e poi giudiziaria, in presenza di determinazioni datoriali che egli riteneva illegittime, reagendo anziché acquietarsi e subirle passivamente.
Al comune non resta che risarcire il danno e pagare le spese di giudizio.
Il direttivo AADI
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