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Il pronto soccorso affollato non evita la condanna dell’infermiere che viola le regole e non esegue

Commento a Cassazione sez. IV sez. penale, 16 marzo 2017, n. 18100


Solo l’intervenuta prescrizione del reato “salva” l’infermiere dal reato di omicidio colposo del paziente per non aver applicato le linee guida del triage anche se il pronto soccorso, il giorno dell’episodio, era sovraffollato.

La Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza di condanna del Tribunale di prime cure che, in data 16.07.2014,  aveva condannato l’infermiere CG per il reato di omicidio colposo.

Il tribunale di prima istanza aveva condannato l’infermiere alle pene di giustizia ed al risarcimento dei danni alle parti civili, da liquidarsi in separato giudizio. L’infermiere in qualità di responsabile del servizio di triage del P.S. di un noto ospedale di Roma era quel giorno in servizio con la turnazione 07.00-14.00 ed ha colposamente sottovalutato le condizioni cliniche del paziente giunto in P.S., oltre che le valutazioni espresse dai colleghi dell’autoambulanza che lo avevano prelevato presso la propria abitazione per dolore toracico.

I familiari del paziente avevano dichiarato al personale dell’ambulanza, giunta presso l’abitazione, che vi era stato un precedente decesso del padre del malcapitato per infarto.

Il personale dell’ambulanza assegna un codice giallo al paziente e lo porta immediatamente presso l’ospedale di riferimento, giungono all’ingresso del P.S. alle ore 11.49; la mancata compilazione della scheda di accettazione, la circostanza di aver trascurato il richiamato elemento della familiarità, l’errata attribuzione del codice verde, laddove l’esatta valutazione di sintomi in sede di triage avrebbe imposto il codice giallo,  la mancata effettuazione di un esame –ecg- secondo le linee guida previste dal triage, la mancata rivalutazione del paziente tra le ore 11.49  –ore di arrivo in P.S.-  e le ore 14.00, così che alle ore 15.08, gli infermieri subentrati in turno accertavano le condizioni gravissime del malato, che veniva immediatamente ricoverato in cardiologia ove decedeva alle ore 16.30.

La Corte di Appello considerava che, al momento dell’arrivo del paziente al P.S., l’infarto era già in atto e che la colpevole sottovalutazione dei sintomi del malato da parte dell’infermiere CG, aveva fatto si che il paziente D rimanesse per circa due ore nella struttura senza ricevere nessuna assistenza.

Avverso la sentenza della Corte di Appello, ha proposto ricorso l’infermiere per tramite del suo avvocato, deducendo che la Corte Territoriale si fosse adagiata sulle deduzioni delle testimonianze rese da soggetti interessati solo ad un risarcimento danni, deduce ancora che il paziente non aveva presentato nessun sintomo sino alla sua permanenza in P.S. e che erroneamente la sentenza impugnata afferma che invece l’infarto fosse già in corso.

Deduce inoltre che non corrisponde al vero che l’infermiere non si sia attenuto alle linee guida, osserva che i criteri di organizzazione del P.S. fanno si che i tempi di attesa non hanno inciso sulla situazione clinica; aggiunge ancora che in quella data il P.S. era estremamente affollato e che l’infermiere sopraggiunto al cambio turno, sostituì l’imputato soltanto un’ora dopo dal momento della presa in servizio. Richiama inoltre che le dichiarazioni rese dal medico che ebbe ad effettuare l’autopsia, indicativa di un infarto sorto da pochissimo tempo, quando l’infermiere CG era già smontato dal turno. Sulla scorta di tali rilievi, il ricorrente osserva che all’imputato non debba addebitarsi alcunché e che i giudici hanno trascurato di valutare il referto autoptico.

La Suprema Corte investita della questione, rileva preliminarmente che il termine prescrizionale massimo relativo all’ipotesi di reato in addebito è pari a 7 anni e 6 mesi, risulta quindi decorso in data 22.04.2016. Come è noto, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata, in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva.

Premesso questo; il ricorrente lamenta il fatto della mancata valorizzazione di determinati elementi di fatto, omettendo di confrontarsi con il percorso argomentativo sviluppato in sede di giudizio della Corte di Appello. Preme evidenziare che i giudici si sono soffermati sia sui profili di ascrivibilità colposa della condotta, sia sulla riferibilità causale dell’evento, alle omissioni ed alle mancanze che caratterizzano la complessiva presa in carico del paziente D, da parte dell’infermiere professionale CG, in servizio quel giorno in P.S. dell’ospedale X.

Per quello che riguarda la colpa, il Collegio ha in particolare rilevato che CG aveva violato sia le linee guida del triage, sia le regole di comune diligenza e perizia richieste all’infermiere professionale addetto al P.S., tenuto conto dei sintomi mostrati dal paziente – perdita di conoscenza; incontinenza urinaria- e della acquisita anamnesi familiare.

Già al domicilio del paziente infatti, era stato rilevato il dato attinente al precedente caso di infarto del miocardio occorso al padre  all’età di 35 anni, la medesima situazione del paziente di cui si tratta. La Corte territoriale ha pure rilevato che le condizioni di sovraffollamento della struttura sanitaria, il giorno del fatto, non autorizzavano altrimenti la declassificazione del triage rispetto ai codici di priorità gialli, che afferiscono a patologie degne di particolare attenzione.

Sul versante causale la corte territoriale ha poi giustamente osservato che l’assegnazione del corretto codice di priorità avrebbe comportato, secondo le indicazioni delle linee guida, l’effettuazione dell’elettrocardiogramma entro trenta minuti, evenienza che avrebbe consentito di intraprendere utilmente il corretto percorso diagnostico e terapeutico.

Il collegio ha rilevato che i consulenti tecnici avevano chiarito che la condotta attesa, secondo la buona pratica medica nel rispetto delle linee guida del settore infermieristico, da parte dell’infermiere CG, avrebbe evitato la morte del paziente. In quanto, ove lo stesso avesse assegnato il codice corretto, il paziente sarebbe stato sottoposto entro trenta minuti ad elettrocardiogramma, coerentemente con le indicazioni delle linee guida e tale accertamento avrebbe consentito di intraprendere in tempo utile il corretto percorso diagnostico e terapeutico.

Così i giudici hanno ricostruito il decorso dell’insulto cardiaco di cui si tratta; “dopo la sincope iniziale, intervenuta quando il malato si trovava presso la propria abitazione, ripresosi e trasportato in urgenza in ospedale, trascorse circa tre ore, in assenza di controlli e terapie, presso l’astanteria del P.S., era insorto l’esito fatale, dovuto secondo il perito nominato, ad una trombosi della coronaria di sx”. La corte quindi ha insindacabilmente affermato che, nel caso di specie, “sussistevano i presupposti per affermare la riconducibilità causale dell’evento alla condotta omissiva dell’imputato. Invero, il ragionamento probatorio ora sinteticamente riferito, si colloca del tutto coerentemente, nell’alveo dell’insegnamento espresso dal diritto vivente. Si è chiarito che il coefficiente probabilistico della generalizzazione scientifica non è solitamente molto importante e che è invece importante che la generalizzazione esprima effettivamente una dimostrata, certa relazione causale tra una categoria di condizioni ed una categoria di eventi. Nella verifica dell’imputazione causale dell’evento, cioè, occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato; il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta. Con particolare riferimento alla causalità omissiva – che viene in rilievo nel caso di specie- si osserva poi che la giurisprudenza di legittimità ha enunciato il carattere condizionalistico della causalità omissiva, indicando il seguente itinerario probatorio”; “il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario e si fonda anche sull’analisi della caratteristica del fatto storico, da effettuarsi ex post sulla base di tutte le emergenze disponibili e culmina nel giudizio di elevata probabilità logica”.

Quindi il giudice di merito deve sviluppare il ragionamento che si confronti con le particolarità della fattispecie concreta, chiarendo cosa sarebbe successo se fosse stato posto in essere il comportamento richiesto all’imputato dall’ordinamento. In conclusione deve considerarsi che le valutazioni effettuate dalla Corte di Appello, sulla questione relativa alla prova della riferibilità causale del decesso del paziente alla condotta dell’infermiere CG, risultano immuni dalle deduzioni proposte dal ricorrente e paiono perciò del tutto congruenti rispetto all’acquisito compendio probatorio, ritenendo sussistenti le condizioni oggettive e soggettive per l’affermazione di responsabilità rispetto al delitto colposo addebitato.

La sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio ai fini penali, poiché il reato è estinto per prescrizione; specularmente deve ritenersi respinto il ricorso a fini civili.

Dott. Carlo Pisaniello 

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