Commento a Cass. IV sez. penale del 25 giugno 2018
Con sentenza del 17 marzo 2017 la Corte d’appello di Taranto ha riformato parzialmente la precedente sentenza del Tribunale di prime cure di Taranto, con cui era stata accertata responsabilità penale di F.C. e F.L., riducendo la pena ed eliminando le statuizioni civili in ordine al reato di cui all’art. 589 c.p., commi 1 e 2, i quali, in cooperazione fra loro nella qualità di dirigenti medici di medicina e chirurgia e di accettazione ed urgenza presso l’Ospedale (OMISSIS), avevano cagionato la morte del Sig. C.M.S., omettendo di somministrare allo stesso la terapia eparinica come indicata dalle linee guida che ne prevedono la somministrazione ai pazienti allettati per un periodo superiore a tre giorni, nonché a coloro che abbiano età superiore agli anni 40 o si trovino in situazione di sovrappeso corporeo. L’omessa somministrazione aveva determinato l’insorgenza di un trombo nelle vene dell’arto inferiore destro, con conseguente arresto cardiaco respiratorio, secondario a tromboembolia acuta massiva, cui seguiva il decesso.
Il Sig. C.M.S., religioso, a seguito di un incidente stradale, veniva trasportato presso l’Ospedale (OMISSIS) ove gli veniva diagnosticata la frattura della 7^ costa destra, in politrauma della strada, ferita lacero-contusa in regione occipitale destra e contusioni multiple.
Sottoposto a TAC total body, emergeva esclusivamente l’infrazione del 6^ elemento costale, in corrispondenza della linea ascellare media e l’infrazione dell’ala scapolo-omolaterale. Veniva quindi trasferito nel reparto di “osservazione breve”, rimanendovi ricoverato sino al 12 giugno 2011, allorquando veniva dimesso con diagnosi di “infrazione della 6^ costa destra e dell’ala scapolare omolaterale in politrauma contusivo della strada; trauma cranico non commotivo con ferita lacerocontusa in regione occipitale destra” e con le seguenti prescrizioni “fans al bisogno più eventuale protezione gastrica (…) levoxoflacina per 5 giorni (…) riposo domiciliare” con rinvio al medico curante.
Presso la propria abitazione il C. veniva assistito da persone di famiglia e da un assistente domiciliare. Il giorno (OMISSIS), dopo la colazione, ha cominciato ad accusare difficoltà di respirazione, per cui si rendeva necessario chiamare di nuovo il 118 e veniva sottoposto a manovre di rianimazione e giungeva all’ospedale in arresto cardiocircolatorio.
Dal riscontro autoptico si evidenziava che il paziente era deceduto a causa di un arresto cardiorespiratorio secondario a tromboembolia acuta massiva, con occlusione trombotica totale degli imbocchi di entrambe le arterie polmonari. Secondo l’esito dell’esame istologico il trombo risultava “fibrino-leucocitario”, cioè di recente formazione, in assenza di alterazioni patologiche degli organi interni tali da giustificare una formazione autoctona.
Le sentenze di primo grado e di appello ritengono la sussistenza della condotta colposa degli imputati sulla scorta della ricostruzione e dell’analisi del perito nominato dal giudice per le indagini preliminari, ritenuto esperto ematologo, secondo il quale, a mente delle linee-guida contenute nel Padua prediction score, il Sig. C. presentava un indice di rischio di tromboembolia pari almeno a 4, trattandosi di paziente anziano ed in situazione di ipomobilità, punteggio che avrebbe dovuto indurre i medici sottoposti a giudizio, a somministrare la profilassi eparinica.
La profilassi, secondo il perito, avrebbe con altissima probabilità bloccato l’embolia polmonare, quantomeno nella sua entità, non potendosi peraltro sostenere, come preteso dagli imputati, la non somministrabilità a domicilio del farmaco, posto che siffatta raccomandazione, pur richiamata nelle linee guida, è classificata 2C e quindi dotata di scarso significato, perchè non documentata da sufficienti studi clinici.
La Corte di Appello conferma la sentenza di primo grado ritenendo provato sia il fattore di rischio rappresentato dall’ipomobilità del paziente, prolungatasi anche oltre i tre giorni del ricovero, che la natura fibrino-leucocitaria del trombo, tipica di un’insorgenza recentissima, anche tenendo in considerazione il fatto che, dalla relazione di servizio compilata dal Dott. F. era emerso come non avesse prospettato la possibilità del rischio trombotico, ma solo di quello emorragico, tanto è vero che ripetè più volte l’esame emocromocitometrico per escludere l’evenienza di emorragie occulte postraumatiche, dimettendo quindi il paziente a fronte dell’esito rassicurante di siffatta analisi ematica.
Inoltre la sentenza del giudice di appello rigetta il motivo formulato da entrambe gli imputati relativo alla mancata applicazione della L. n. 158 del 2012, art. 3, (c.d. Legge Balduzzi), condividendo con il primo giudice l’inapplicabilità della disciplina, difettandone il presupposto per l’assoluto discostamento dell’agire dei medici dalle linee guida e dalle buone pratiche.
Avverso la sentenza della Corte territoriale propongono impugnazione presso la suprema Corte i due dirigenti medici a mezzo dei rispettivi difensori.
Il Dott. F. rileva l’assenza di spiegazione circa la riferibilità causale dell’evento alle scelte terapeutiche poste in essere e per il fatto che ebbe in cura il Sig. C. solo durante il periodo di “osservazione breve” presso il nosocomio, osservando che, anche il secondo giudice, benchè sollecitato dall’impugnazione, aveva omesso il confronto con le argomentazioni dei consulenti di parte, secondo i quali, l’allettamento o l’immobilizzazione prolungata (considerate la causa della tromboembolia, ma non oggetto della prescrizione dei sanitari) non potevano applicarsi ad un soggetto non politraumatizzato; sottolineando che, in ogni caso, l’ipomobilità è cosa diversa dall’allettamento e che solo nel secondo caso sarebbe stata indicata la somministrazione di eparina nel politraumatizzato.
Sostiene inoltre che la Corte, uniformandosi pedissequamente al primo giudice, è incorsa in un grave vizio processuale e motivazionale consistito nell’avere omesso la valutazione formale e scientifica degli assunti tecnico-difensivi, con ovvie conseguenze in tema di nesso causale e di giudizio contro-fattuale.
Rileva inoltre che la Corte territoriale, allineandosi al primo giudice, ha escluso l’applicabilità della c.d. Legge Balduzzi senza avere proceduto d’ufficio, come ritenuto doveroso dalla giurisprudenza di legittimità, all’accertamento del grado di colpa, al fine di verificare se la condotta del sanitario fosse o no aderente alle linee guida accreditate. Parimenti è stata omessa anche la possibilità di applicazione della nuova normativa entrata in vigore, ossia la Legge 8 marzo 2017, n. 24, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica in data 17 marzo 2017, proprio il giorno della pronuncia della sentenza di secondo grado, con termine di vacatio al 1^aprile 2017. A mente della nuova normativa che ha introdotto l’art. 590 sexies c.p., la punibilità deve ritenersi esclusa laddove siano state rispettate le linee guida e le raccomandazioni previste, ovvero in loro assenza, le buone pratiche cliniche assistenziali, sempre che risultino adeguate alla specificità del caso.
Il secondo medico invece, lamenta che la Corte territoriale ha omesso di considerare, ai fini dell’individuazione del corretto trattamento farmacologico, la differenza fra un paziente medico ed un paziente chirurgico, senza comprendere che la natura del paziente – in questo caso paziente medico – costituisce uno dei passi necessari per valutare quali cure somministrare; né si è premurata di distinguere fra allettamento, mai prescritto dai medici, e riduzione di mobilità, fatta rientrare dal primo giudice nella nozione di ipomobilità, la cui ricorrenza nel caso di specie la Corte dà per pacifica sulla base di elementi del tutto equivoci, quali l’utilizzo di analgesici, del catetere, la stipsi, l’esecuzione di una radiografia “direttamente a letto”.
Analizzati i motivi del ricorso, la Suprema Corte indica le censure proposte come sostanzialmente sovrapponibili. Entrambi i ricorrenti infatti, lamentano che il giudice di appello abbia aderito in modo acritico alla sentenza di primo grado ed abbia sostanzialmente omesso di confrontarsi con i motivi proposti con l’atto di appello. Si dolgono poi della mancata valutazione dei contributi tecnico-scientifici forniti dalle consulenze di parte (ignorati dalla Corte nonostante la richiesta di esaminarli), i quali dimostravano che i sanitari effettuarono una adeguata valutazione del paziente, considerando i costi ed i benefici della terapia eparinica in soggetto non politraumatizzato; che per quel tipo di patologia non è previsto alcun allettamento e che, dunque, una simile terapia non si rendeva necessaria essendo il Sig. C. un paziente medico e non un paziente chirurgico.
In secondo luogo, osservano che l’immobilizzazione prolungata del paziente non fu affatto una scelta o un’indicazione dei sanitari e che l’ipomobilità eventualmente sopraggiunta secondo quanto riferito dall’assistente domiciliare dopo le dimissioni, non può essere provata.
Mancherebbe quindi il presupposto della valutazione dello score di rischio tromboembolico, al momento delle dimissioni.
Secondo la Cassazione si tratta di motivi che appaiono destituiti di fondamento, infatti corrisponde al vero che la decisione della Corte di Appello si allinea alle conclusioni del Giudice di primo grado, ma solo in seguito ad un’attenta disamina di tutte le censure proposte dai gravami, il ragionamento della sentenza di Appello è sufficiente a dar atto che si affronta la questione dell’attribuzione dello score di rischio tromboembolico rispondendo alle censure degli imputati, secondo i quali, il trauma non poteva classificarsi come trauma maggiore e quindi non richiedeva terapia antitrombotica.
La sentenza invece chiarisce l’inconferenza dell’argomento difensivo, alla luce dei criteri del Padua prediction score accreditati dalle linee guida internazionali, che non rimettono il rischio trombotico alla condizione di paziente semplicemente curato con i farmaci o sottoposto a misure chirurgiche, bensì all’età anagrafica (di per sè fattore di rischio) ed all’allettamento, nell’ipotesi di ipomobilità prolungata per almeno tre giorni (in cui è compreso il breve spostamento in bagno).
Il passaggio focale della sentenza è chiarissimo ed esamina proprio gli argomenti scientifici sottoposti con gli atti di appello: il collegio infatti affronta anche la questione, sollecitata per altro anche dagli imputati, della prova dell’ipomobilità e dell’atteggiamento rinunciatario del paziente, riferito dall’assistente domiciliare, che si concretizzava col rifiuto di alzarsi dal letto per il dolore, dopo le dimissioni.
La circostanza che detti indici siano i medesimi tenuti in considerazione dal primo giudice non significa affatto che la Corte non abbia riposto alle doglianze, ma solo che il quadro probatorio è quello emerso in giudizio e cioè quello sulla base del quale il giudice di primo e quello di secondo grado sono tenuti a formare il loro convincimento.
Dalla lettura della motivazione emerge che il Collegio ha risposto a ciascuna delle questioni poste dagli imputati, ritenendo che l’ipomobilità osservata nel corso del ricovero per oltre tre giorni e le concrete condizioni del paziente, rendessero facilmente prevedibile il protrarsi di quella situazione, anche avuto riguardo del fatto che, al medesimo, non fu prescritto di muoversi, nè fu vietato l’allettamento.
Secondo la Corte, la presenza di D-Dimero (prodotto di degradazione della fibrina, proteina responsabile della formazione di coaguli) in misura dieci volte superiore al normale livello, pur essendo il dato indice aspecifico, come ampiamente spiegato dal perito, concorreva con l’elevato score, a dimostrare una volta di più la necessità della prescrizione di terapia eparinica, anche in assenza di sintomi espliciti.
Secondo i consulenti di parte la terapia eparinica presentava un rischio di emorragia sostanzialmente coincidente con la riduzione del rischio di trombo embolia e per questo motivo avevano omesso l’indicazione di linee guida contrarie al Padua prediction score, ma lo studio scientifico del 2007 a cui essi facevano riferimento era privo della necessaria validazione scientifica, neppure citata dai consulenti, indispensabile per assumerne gli esiti in giudizio.
Sul punto la Corte territoriale chiarisce che, sebbene non spetti al giudice la verifica e la validazione di studi scientifici, quantomeno spetta a chi vi si riferisca indicarne la fonte di corroborazione scientifica. La sentenza impugnata risponde ai motivi di Appello in modo del tutto coerente con le premesse ed il ragionamento del primo giudice; si chiarisce quindi che nessuna antinomia è possibile cogliere fra quanto sostenuto dal medesimo perito in sede di audizione, secondo cui la somministrazione avrebbe escluso al 100% o con elevatissimo grado di probabilità la morte del paziente, con quanto contenuto nella relazione scritta, secondo cui la profilassi, avviata durante la degenza, avrebbe ridotto il rischio.
Questo preambolo, necessario all’analisi dei motivi proposti, dimostra che le doglianze avanzate in sede di ricorso sono la surrettizia deduzione di un’asserita carenza di motivazione della sentenza di merito, volta ad ottenere una rivalutazione delle prove ed un sostanziale apprezzamento di fatto, pacificamente vietato in in sede di Cassazione.
Pertanto Cassazione non può che condividere il giudizio della Corte territoriale che esclude l’applicabilità della disposizione del D.L. n. 158 del 2012, art. 3 conv. dalla L. n. 189 del 2012, pur se è vero, come sostiene il ricorrente, che secondo l’orientamento maturato in sede di legittimità, in sede di vigenza del c.d. decreto Balduzzi: “la limitazione della responsabilità del medico in caso di colpa lieve, prevista dalla L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3, comma 1, opera, in caso di condotta professionale conforme alle linee guida ed alle buone pratiche, anche nella ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversi dall’imperizia”. (In motivazione la Corte ha precisato che tale interpretazione è conforme al tenore letterale della norma, che non fa alcun richiamo al canone della perizia e risponde alle istanze di tassatività dello statuto della colpa generica delineato dall’art. 43 c.p., comma 3). (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016 – dep. 06/06/2016, Denegri, Rv. 26690301), ma il presupposto applicativo è la conformità della condotta alle linee guida, ove esistenti, ed alle buone pratiche, pacificamente mancate nel caso di specie, non avendo i sanitari neppure correttamente approfondito la valutazione dello score di rischio, come accertato con sentenza doppia conforme di merito.
Tutto ciò consente di affermare la sussistenza di una colpa grave dei medici, rilevante non solo ai sensi del D.L. n. 158 del 2012, ma anche rispetto ai criteri generali regolanti la colpa medico-professionale prima dell’entrata in vigore della legge disciplinante, in modo specifico la colpa medica. Né può porsi la questione della valutazione della disciplina penale più favorevole in conseguenza dell’entrata in vigore della L. n. 24 del 2017, posto il recente insegnamento delle Sezioni Unite secondo cui “In tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, l’abrogato D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 1, si configura come norma più favorevole rispetto all’art. 590-sexies c.p., introdotto dalla L. n. 24 del 2017, sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto“(Sez. U, n. 8770 del 21/12/2017 – dep. 22/02/2018, Mariotti e altro, Rv. 27217501).
Per questi motivi la Corte respinge i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di giusitizia.
Dott. Carlo Pisaniello
Vice Presidente AADI
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