La Corte di Appello di Bologna con la sentenza n. 79 del 19 gennaio 2018, confermava la sentenza di prime cure che aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato dalla Società Autostrade SPA al lavoratore che, aveva abusato dei permessi ex art. 33, comma 3, della L. n. 104/92.
La corte Territoriale, in sintesi, aveva osservato che poteva ritenersi raggiunta la prova dell’abuso dei permessi di cui sopra, a seguito della relazione investigativa (su incarico del datore di lavoro) confermata anche in sede di prova testimoniale.
Infatti, il lavoratore, nelle giornate del 5 e dell’8 settembre 2015, non era mai entrato o uscito dall’abitazione nell’arco orario compreso tra le 6.30 e le 21.00 e, dunque, non poteva essersi recato presso la diversa abitazione di residenza della zia per fornirgli assistenza, circostanza che valutata unitamente alle dichiarazioni rilasciate dal lavoratore in sede di giustificazioni rese ai sensi dell’art. 7 della legge n. 300/70 ed alla prova ulteriore degli investigatori, giustificava il provvedimento espulsivo per il disvalore sociale ed etico della condotta compromettendo irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra azienda e lavoratore.
Il lavoratore propone ricorso in Cassazione e la società resiste con controricorso.
Secondo il ricorrente, la corte territoriale avrebbe commesso violazione e falsa applicazione di legge degli artt. 5 L. n. 604/66, 2119 e 2698 c.c., 18, comma 4 della L. n. 300/70, avendo illegittimamente invertito l’onere della prova in ordine alla sussistenza della condotta addebitata al lavoratore e ritenuto quindi legittimo il licenziamento in considerazione della mancata prova, richiesta al lavoratore, di aver effettuato assistenza alla propria zia nelle date del 5 e 8 settembre 2015.
Per altro le risultanze investigative fornite dal datore di lavoro, hanno solo rappresentato un mezzo probatorio ulteriore, ma impreciso, visto che l’appostamento effettuato dagli investigatori non risultava corrispondente all’indirizzo della zia malata.
Deduce inoltre, vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, primo comma c.p.c., avendo la corte territoriale trascurato che il datore di lavoro è dovuto ricorrere ad una attività investigativa integrata, in data 7 dicembre 2015 (dopo il licenziamento) in considerazione della mancanza dell’esatta conoscenza del numero civico dell’abitazione del lavoratore.
Deduce ancora che, la corte territoriale avrebbe trascurato il fatto che, in data 30 e 31 agosto 2015, il lavoratore avrebbe invece prestato assistenza alla zia malata, compromettendo così il nesso causale tra la condotta addebitata e il provvedimento espulsivo.
La mancata piena prova, ossia quella prova puntuale e precisa sul fatto contestato, ben poteva essere equiparata ad una prova inesistente se non quantomeno parziale, determinando così un’incertezza idonea a generare un serio dubbio sull’effettivo abuso e di conseguenza, sulla durata dell’abuso stesso atto ad incidere sulla gravità del fatto e sulla proporzionalità della sanzione espulsiva.
Deduce infine violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. per aver condannato il lavoratore alle spese di lite nonostante lo stesso rimanesse, a causa del licenziamento privo di reddito.
La Cassazione contesta le deduzioni di parte ricorrente, infatti secondo il supremo consesso le censure svolte dalla parte medesima, purché proposte come violazioni e false applicazioni della legge si traducono in realtà come critiche ed obiezioni avverse una valutazione delle risultanze istruttorie del giudice di merito nell’esercizio del suo libero convincimento delle prove e si risolvono nella prospettazione del risultato della valutazione degli elementi probatori acquisiti e evidenziando così un sindacato di merito della causa non consentito in sede di legittimità.
Tale ipotesi infatti è configurabile qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga un totale stravolgimento degli elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero, quando sia manifesta l’obiettiva carenza del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti al suo convincimento, ma giammai quando invece vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente.
Inoltre, i motivi di impugnazione ripropongono gli stessi già manifestati nell’appello e tanto basta per farli ritenere inammissibili poiché avulsi dal paradigma di riferimento tassativamente previsti dall’art. 360 c.p.c..
Si aggiunga a questo poi la pronuncia “doppia conforme” poiché sia la corte di primo grado che l’appello hanno confermato le medesime deduzioni, pertanto ove vi sia una doppia conforme il vizio di motivazione non è deducibile.
Come anche confermato dalle SS.UU. n. 8053/2014, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico” ,“nella motivazione apparente”, nel ”contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e ”nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
La Corte territoriale ha con motivazioni logicamente congrue, affrontato la questione relativa all’abuso dei permessi ex art. 33, comma 3, della L. n. 104/92, di due dei 4 gg. contestati al lavoratore, osservando la relazione investigativa prodotta dal datore di lavoro confermata in sede di prova testimoniale dall’investigatore, dimostrando ce il lavoratore nelle gg. del 5 e dell’8 settembre 2015 non era uscito né entrato nella propria abitazione in orario compreso tra le 6.30 e le 21.00.
Il tutto strideva poi con le affermazioni rese dal lavoratore in sede di audizione disciplinare, asserendo che invece aveva prestato regolare assistenza alla zia malata ad eccezione di alcune ore della giornata, non deducendo altresì di aver però prestato assistenza in orario precedente alle 6.30 e successivo alle 21.00.
Per quanto riguarda le spese di lite, dedotte con la violazione dell’art. 91 c.p.c., anche ove fosse ipotizzato u vizio di cui all’art. 360 c.p.c., la censura sarebbe infondata perché è solo la compensazione delle spese e non l’applicazione delle regole della soccombenza a dover essere sorretta da motivazioni trattandosi di circostanze discrezionalmente valutabili e perciò non costituenti punti decisivi idonei a determinare una decisione diversa da quella adottata. La decisione poi, è successiva all’entrata in vigore della legge di stabilità 2013 e pertanto le spese così per come sono state espresse risultano corrette.
Per tali motivi si rigetta il ricorso e si condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in 200 € per esborsi e in 4000 € per compensi professionali.
– Dott. Carlo Pisaniello
Comments