Commento a Sentenza Cass. IV sez. Penale n. 33405 18 luglio 2018
La Cassazione ha accolto il ricorso del Pubblico Ministero e delle parti civili contro l’assoluzione di un’anestesista, accusata di aver provocato la morte di un bimbo di 17 mesi dopo aver tentato per sette volte di “incannulare” le vene del collo del paziente, anche se in assenza di un rischio immediato di vita e nell’ambito di un intervento programmato.
In riforma della sentenza di assoluzione pronunciata in precedenza, il Procuratore Generale ricorre per violazione di legge e vizio di motivazione, poiché pur essendo il reato prescritto, il giudice è pervenuto ad assoluzione trascurando del tutto le risultanze della consulenza autoptica da cui si evince chiaramente che l’imputata non intervenne in una situazione di emergenza, poiché l’intervento era programmato e non quindi in via d’urgenza e le condizioni generali del bambino erano discrete con buona ossigenazione come emerge dal diario infermieristico.
Il bambino non versava quindi in condizioni critiche, come hanno confermato i consulenti medico-legali intervenuti nella vicenda, oltre che,il genitore del bambino e il coimputato.
La crisi respiratoria sopraggiunse soltanto dopo l’infruttuoso tentativo dell’anestesista di incannulare la giugulare interna di conseguenza le condizioni generali del bambino. Il consulente che ha eseguito l’autopsia ha dichiarato che, dopo due tentativi falliti non è raccomandabile ripetere ulteriormente la manovra e che la morte del piccolo paziente deve ascriversi ad una condotta censurabile di colei che, dopo aver tentato un accesso infruttuoso a livello del terzo prossimale della coscia con isolamento della vena safena prossimale, tentò un approccio sia agli arti superiori che alla vena giugulare interna.
La prova sulla giugulare interna fu’ produttiva di emotorace bilaterale che portò alla morte del piccolo paziente; tutti i tentativi di incannulamento risultano essere stati effettuati esclusivamente dall’imputata.
I periti hanno dichiarato che in casi come questi o in situazioni di emergenza, le linee guida consigliano di praticare la puntura intraossea come prima procedura alternativa, hanno evidenziato inoltre che, l’emotorace, pur costituendo una delle complicanze letali, ha comunque una bassa incidenza complessiva: è perciò evidente che aumentando i tentativi infruttuosi di incanalamento, aumentano conseguentemente i rischi di attualizzare le complicanze.
Già con 5 tentativi falliti si hanno complicanze di natura meccanica, come la perforazione delle cupole pleuriche ed emotorace in una percentuale dell’85% dei casi.
Nel caso di specie i tentativi di incannulare le giugulari furono ben sette, sicché è intuitivo l’elevato rischio di conseguenze letali, tanto che in letteratura medica non risultano descritti casi in cui siano stati effettuati ben sette tentativi, fermandosi la casistica al massimo a 5. Si aggiunga anche la particolare difficoltà tecnica di esecuzione segnatamente su pazienti di basso peso, come era il piccolo paziente che aveva solo 17 mesi e pesava 6,5 Kg.
Anche dalla consulenza autoptica dei periti di parte civile emerge il prodursi di emotorace, denotando la scarsa perizia dell’operatore che provò reiteratamente a reperire altra vena.
La procedura in esame richiede una certa esperienza dell’operatore, pertanto, valutati i rischi, tenendo conto che il bambino non presentava rischi urgenti di insufficienza dei parametri vitali, poteva certamente essere rimandata.
Il giudice del merito, non spiega perché le infermiere, nell’ambito delle deposizioni abbiano manifestato palesi contraddizioni e incongruenze parlando di una situazione di assoluta emergenza e perché dovrebbero essere ritenute più attendibili dei consulenti del pubblico ministero e dei periti nominati dal G.I.P., tutti docenti Universitari.
Innumerevoli contraddizioni sono state riscontrate anche nelle dichiarazioni dell’imputata, la quale ha comunque ammesso che, quando effettuò le prove sulle giugulari interne, non vi era ancora una situazione di emergenza, sorta soltanto successivamente. Il bambino era cosciente poiché era stato sottoposto solo ad una anestesia locale, ma morì soffocato per l’imperizia dell’imputata che ebbe a ripetere la manovra sette volte
fino a lesionare entrambe le cupole pleuriche. L’imputata non ha nemmeno richiesto un Rx torace di controllo dopo il primo insuccesso, nonostante le anomalie normo-funzionali ben conosciute dall’anestesista.
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso fondato in quanto il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella del giudice di merito, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione e se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando un esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, oltre che, se abbiano correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass. SS.UU. 13/12/1995, Clarke, Rv. 203428).
Nel caso di specie, l’apparato logico posto alla base della sentenza di secondo grado, non è esente da vizi, non si evince con chiarezza sulla base di quali argomentazioni i giudici di merito siano pervenuti al sostrato probatorio idoneo a supportare una sentenza assolutoria. La corte territoriale si è limitata ad osservare che i periti nominati dal GIP in sede di incidente probatorio, avessero evidenziato come la cannulazione della vena giugulare interna presenti, non solo un elevatissimo rischio di trombosi reattiva, ma anche una notevole difficoltà tecnica di esecuzione, vista l’età, la morfologia del bambino, della natura del tessuto cutaneo e sottocutaneo nonché della mobilità del vaso e della frequente relativa tortuosità.
I periti inoltre, non avevano escluso, comprovandolo statisticamente, le diverse complicanze associate all’inserimento di un catetere venoso centrale e avevano sottolineato la ricorrenza di complicanze meccaniche a seguito di manovre di incannulamento di vene centrali, alcune delle quali letali. La lesione delle cupole pleuriche che ha cagionato l’emotorace, come accertato dal riscontro autoptico, rientra staticamente nelle complicanze letali più frequenti, di qui la conclusione secondo la quale, nella condotta dell’anestesista, non è certo che possano ravvisarsi elementi di colpa da imperizia, poiché come anche confermato dai periti, l’emotorace può verificarsi occasionalmente per cause non sempre attribuibili ad errori tecnici verificatisi nel corso della procedura di cannulamento venoso centrale e che non esiste una linea-guida che stabilisca il numero massimo di tentativi di cannulazione della vena percutanea.
Non si può non rilevare come difetti in primo luogo una disamina della tematica relativa alla normativa applicabile alla fattispecie concreta in esame. Al riguardo occorre rilevare come all’epoca in cui si sono verificati i fatti, anno 2007, ad oggi, si siano succedute ben tre normative; nel 2007 l’ordinamento non dettava alcuna particolare prescrizione in tema di responsabilità medica, per cui erano applicabili i principi generali in materia di colpa, alla stregua dei quali il sanitario era penalmente responsabile ex art. 43 cod. pen. quale che fosse il grado della colpa. Era cioè indifferente ai fini della responsabilità, che il medico versasse in colpa lieve o grave.
Nel 2012 entrò in vigore il decreto 13 settembre 212, n. 158, convertito in legge 8 novembre 2012, n. 189 c.d. legge Balduzzi , il quale all’art. 3, comma 1, stabiliva che l’esercente la professione sanitaria, che nello svolgimento della propria attività si attenesse alle linee guida o alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non dovesse rispondere penalmente per colpa lieve. Più recentemente è entrata in vigore la legge 8 marzo 2017 n. 24 c.d. legge Gelli-Bianco, la quale, all’art. 6 ha abrogato il predetto art. 3 della legge Balduzzi ed ha dettato un nuovo art. 590 sexies del cod. pen. attualmente vigente.
Occorre dunque stabilire quale sia il regime applicabile al caso di specie: in primo luogo è da escludersi che il regime vigente sia applicabile all’epoca del fatto, infatti nel regime normativo originario la distinzione fra colpa grave colpa lieve era del tutto irrilevante ai fini della responsabilità penale in quanto la colpa lieve e grave erano del tutto equivalenti nell’ imputazione soggettiva dell’illecito.
Sia la legge Balduzzi che la legge Gelli-Bianco prevedono invece delle limitazioni alla responsabilità del medico, sconosciute al regime originario e, quindi, costituiscono entrambe leggi più favorevoli nell’ottica dell’art. 2 cod. Pen..
Esclusa l’applicabilità del regime normativo previgente del 2007, occorre stabilire quale sia quello applicabile. In questa prospettiva il tenore testuale dell’art. 590 sexies, introdotto dalla legge n. 24/2017, nella parte in cui fa riferimento alle linee guida, è assolutamente chiaro nel subordinare l’operatività delle disposizioni alle linee guida “come definite e pubblicate ai sensi della legge”.
La norma richiama l’art. 5 della legge n. 24/17, che detta un articolato iter di elaborazione di linee guida; dunque, in mancanza di linee guida approvate ed emanate mediante il procedimento di cui all’art. 5 della legge n. 24/17, non si può fare riferimento all’art. 590 sexies cod. Pen., se non nella parte in cui richiama le buone pratiche clinico-assistenziali.
Ne consegue che la possibilità di riservare uno spazio applicativo ell’art. 509 sexies cod. Pen. nell’attuale panorama, è ancorata all’opzione consistente nel ritenere che le linee guida attualmente vigenti, non approvate secondo il procedimento di cui all’art. 5 succitato, possano invece essere considerate come buone pratiche clinico assistenziali. Ma la valutazione ermeneutica non è così agevole se si considera che le linee guida differiscono notevolmente sotto il profilo concettuale, prima ancora che tecnico, dalle buone pratiche clinico assistenziali, sostanziandosi in raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione concettuale, volto ad offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quale sia il percorso diagnostico terapeutico più appropriato in specifiche circostanze cliniche (Cass. sez. 4, n. 18430 del 5/11/2013 RV 261293).
Sono quindi indicazioni standard diagnostico-terapeutiche conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica a garanzia del paziente (Cass., n. 11493 del 24/1/2013; Cass. n. 7951 dell’8/10/13, RV 259334) e costituiscono il condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti singoli ambiti operativi (SS.UU. n. 29 del 21/12/2017) e quindi qualcosa di molto diverso da una semplice buona pratica clinico assistenziale.
Secondo le SS.UU. anche nell’ambito della colpa da imperizia è più favorevole il decreto Balduzzi poiché l’errore determinato da colpa lieve che sia caduto sul momento selettivo delle linee guida, ossia su quello della
valutazione dell’appropriatezza delle linee guida, è coperto dall’esenzione di responsabilità ex art. 3 (Cass. sez. 4, n. 47289 del 9/10/2014 Stefanetti), mentre non lo è più in base all’art. 590 sexies cod. pen.
Sempre in ambito di colpa da imperizia, nella fase attuativa, l’errore determinato da colpa lieve andava esente da responsabilità per il decreto Balduzzi ed è oggetto di causa di non punibilità in base all’art. 590 sexies cod. Pen., essendo in tale prospettiva ininfluente in relazione alla decisione del giudice penale che si pronunci nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore.
I profili appena enunciati sono del tutto estranei alle motivazioni della sentenza impugnata che, risalendo al 2016, è stata emanata antecedentemente all’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, ma successivamente al decreto Balduzzi che, come abbiamo esaminato, additava all’interprete la problematica relativa alla conformità dell’operato del medico alle legis artis e al grado della colpa come discrimine fra la rilevanza penale o meno.
Il caso in esame richiede quindi che si stabilisca cosa prescrivessero le linee guida in merito all’atto medico sub iudice, all’epoca in cui è stata posta in essere la condotta oggetto di linee guida, con particolare riguardo ai pazienti di età e condizioni cliniche della vittima ed in mancanza di queste, se vi fossero al riguardo buone pratiche clinico assistenziali; se l’imputata si sia determinata sulla base di linee guida o di buone pratiche clinico assistenziali adeguate al caso concreto; in caso affermativo, se l’imputata vi si sia attenuta o meno; se nel suo operato sia configurabile una colpa e se questa sia lieve o grave.
Sotto quest’ultimo profilo non pare superfluo richiamare l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, possano essere utilizzati i seguenti parametri:
la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella a cui doveva attenersi;
la misura del rimprovero personale sulla base delle condizioni dell’agente;
la motivazione della condotta;
la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa (cass. n. 22405 dell’8/5/2015 Rv 263736).
Sui quesiti qui esposti il giudice di merito non fornisce una adeguata risposta, ragion per cui è riscontrabile il vizio di mancanza di motivazione, con risposte vaghe e generiche. Inoltre è contraddittorio affermare da un lato che non possano ravvisarsi certi profili di colpa a titolo di imperizia a carico dell’anestesista, dall’altro affermare che la lesione delle cupole pleuriche, che ha cagionato la morte da emotorace, rientra statisticamente fra le complicanze fatali più frequenti; proprio perchè l’eventualità statistica di cagionare tale lesione avrebbe dovuto essere ben nota al medico, avrebbe quindi dovuto prendere le dovute cautele per evitarla.
Escludere la colpa a titolo di imperizia non significa escludere la colpa tout court, poiché rimane il quesito se sia ravvisabile una colpa a titolo di imprudenza, soprattutto in relazione ai molteplici tentativi di effettuazione della manovra, visti anche gli esiti infruttuosi dei precedenti tentativi. Non si può quindi affermare che i giudici di secondo grado siano addivenuti alle loro conclusioni seguendo un itinerario logico giuridico immune da vizi, soprattutto sotto il profilo della razionalità e sulla base di apprezzamenti di fatto esenti da connotati di contraddittorietà o di manifesta illogicità.
Si impone quindi un pronunciamento rescindente risalente al 17-12-2007, dichiarandosi però il reato estinto per prescrizione. La sentenza impugnata va dunque annullata senza rinvio agli effetti penali, la medesima sentenza però va annullata anche per gli effetti civili e rinviata al giudice civile competente per valore in grado di appello cui va demandata pure la regolamentazione delle spese tra le parti.
Dott. Carlo Pisaniello
Comments