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“Revirement” della Cassazione in fatto di pronta disponibilità, superare le 6 previste dal CCNL è in

Il caso riguarda un radiologo in servizio dal 1991 al 1998 che decedeva a seguito di superlavoro.

Gli eredi, la moglie e la figlia, adivano il Tribunale di Nicosia, prospettando che il decesso del coniuge, avvenuto il 19 settembre 1998, era imputabile all’enorme carico di lavoro a cui il loro congiunto era stato sottoposto nel corso dell’intero rapporto lavorativo, chiedendo sia il pagamento dell’equo indennizzo, ai sensi del d.p.r. 461 del 2001, nella misura corrispondente alla I categoria della tabella A di cui al d.p.r. 834/81, nonché il risarcimento del danno non patrimoniale, quantificato in euro 100.000 per ciascuna erede o nella diversa misura equitativamente determinata.

A seguito della consulenza medico legale, il Giudice del lavoro del Tribunale di Nicosia aveva accolto entrambe le domande.

La sentenza veniva impugnata dall’Azienda sanitaria provinciale di Enna contestando, per quanto qui interessa, la sussistenza della responsabilità ex art. 2087 c.c., la Corte di Appello accoglieva solo parzialmente il gravame dell’Azienda sanitaria, non ravvisando nel comportamento datoriale un inadempimento colpevole ai sensi dell’art. 2087 c.c., tale da integrare gli estremi della responsabilità risarcitoria per il danno esistenziale (rectius, per danno non patrimoniale da perdita parentale), considerato che l’adibizione a turni di disponibilità in numero superiore a quelli previsti da C.C.N.L. non poteva concretare “violazione di misure necessarie per tutelare l’integrità psicofisica del prestatore di lavoro”.

I parenti del de cuius ricorrono in Cassazione, la quale, accoglie il ricorso degli eredi per violazione dell’art. 2087, in base al quale “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Infatti la Corte di Appello accogliendo, anche se parzialmente, il ricorso dell’azienda sanitaria aveva con ciò riconosciuto anche il nesso causale tra le condizioni di lavoro del de cuius e l’evento morte, ciò, non poteva quindi non rilevare anche ai fini della prova presupposti per violazione dell’art. 2087 c.c. ed in virtù di ciò, se il decesso era eziologicamente riconducibile alle condizioni di lavoro era onere del datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire l’evento.

Per altro l’istruttoria di primo grado aveva evidenziato la carenza di organico dei dipendenti con qualifica come quella del Sig. R, (tecnico di radiologia medica) ed inoltre aveva evidenziato la numerosa attività di lavoro attraverso il numero di esami radiologici eseguiti presso il servizio di radiologia, ecografia e tomografia computerizzata ed anche il relativo disagio costituito dalla necessità di percorrere, anche nel periodo invernale il passaggio esterno che collega i vari reparti. Inoltre, era stato dimostrato che per gli stessi motivi relativi alla carenza di organico, il Sig. R aveva effettuato turni di pronta disponibilità notturna e festiva in eccesso rispetto ai limiti previsti dalla contrattazione collettiva vigente.

Lamenta inoltre la violazione e la falsa applicazione del CCNL 01.09.95 art. 44, dell’art. 18 D.P.R. 270/85 e dell’art. 36 Cost. per la mancata considerazione dell’impressionante numero di esami effettuati dal servizio in tutti i reparti a carico dei soli 4 tecnici di radiologia disponibili tra cui il Sig. R, un numero di ben 148.513 esami, corrispondenti ad una media di 18.564 esami annui a cui andavano aggiunti gli esami del servizio di tomografia computerizzata pari ad esami 662 annui.

La Corte di Appello non aveva però tenuto in debita considerazione gli altri elementi emersi in giudizio, quali, il carattere ordinario e non eccezionale del superamento del numero dei limiti fissati contrattualmente per i turni di pronta disponibilità anche in violazione dell’art. 36 Cost., costituendo una applicazione distorta della disciplina giuridica dell’eccezione dei turni di PD.

Gli stessi elementi compiutamente emersi nel giudizio di primo grado erano stati invece disattesi dalla corte di Appello, la quale, contraddittoriamente, pur dichiarando di non voler disconoscere tali risultanze istruttorie, e aveva ignorato la valenza giuridica nel ritenere l’insussistenza di qualsiasi profilo di colpa della P.A..

Rileva poi come alla stregua di quanto riferito dai CTU un eventuale predisposizione costituzionale del soggetto non possa elidere l’incidenza concausale, anche soltanto ingravescente, dei nocivi fattori esterni individuabili in un surmenage fisico e psichico, quale quello documentato in atti; le circostanze riguardanti l’aspetto quantitativo e modale del servizio avevano ragionevolmente provocato nel soggetto l’instaurarsi di una cardiopatia ischemica rimasta silente sino alla prima manifestazione clinica della malattia coincisa con il decesso del lavoratore.

La sentenza impugnata aveva escluso che il datore di lavoro fosse colpevole di non aver adottato tutte le misure necessarie alla tutela dell’integrità psicofisica del dipendente, poiché il Sig. R non si era lamentato e/o rifiutato di svolgere i turni di disponibilità, né aveva protestato per il carico di lavoro impostogli o chiesto al datore di lavoro di essere assegnato a mansioni diverse.

Pertanto, la sentenza aveva introdotto il principio inapplicabile nel nostro ordinamento, per cui solo chi si lamenta delle condizioni di lavoro o sollecita l’adozione di misure a tutela della propria salute può puoi reclamare i danni alla propria persona derivanti dalla mancata predisposizione delle relative tutele. Né parte datoriale aveva allegato alcun concorso di colpa del lavoratore ai sensi dell’art. 1227 c.c., norma che in tale ipotesi avrebbe potuto limitare i confini applicativi dell’art. 2087 c.c..

Ai fini poi dell’individuazione del rapporto causale tra condotta del datore di lavoro e infortunio lavorativo, necessario a configurare la responsabilità del primo ai sensi del 2087 c.c. assumono rilevanza non solo gli eventi che costituiscono una conseguenza della condotta datoriale, secondo un giudizio prognostico ex ante, ma tutti gli eventi possibili rispetto ai quali la condotta medesima si ponga con un nesso di causalità adeguata. Pertanto, anche una situazione lavorativa stressante può costituire una fonte di responsabilità per il datore di lavoro sempre che, sia provata la sussistenza di un rapporto di causalità fra tale condizione e l’infortunio subito dal lavoratore.

La nozione di causa di servizio è quella generale di cui all’art. 64 del DPR 1072 del 1973, per cui atti di servizio sono quelli derivanti dall’adempimento degli obblighi di servizio; le lesioni o le infermità si considerano dipendenti da cause di servizio solo quando queste sono state causa ovvero concausa efficiente a determinante.

L’equo indennizzo ha una funzione del tutto diversa dal risarcimento e dall’indennizzo assicurativo per rischi o altro. Infatti, la giurisprudenza amm.va (Cons. di Stato Ad. Plen., 16.07.93 n. 9) ha affermato che mentre il risarcimento del danno da parte del soggetto civilmente responsabile per atto illecito tende a ristabilire l’equilibrio nella situazione del soggetto turbata dall’evento lesivo e a compensare per equivalente la perdita dell’integrità psico-fisica, l’equo indennizzo, per il concetto espresso di equità e di discrezionalità ad esse inerente, oltreché per la sua non coincidenza con l’entità effettiva del pregiudizio arrecato al lavoratore, può essere avvicinato ad una delle tante indennità che il datore di lavoro conferisce ai propri dipendenti in relazione alla vicenda del servizio, con funzione di graduazione e di equa distribuzione compensi aggiuntivi.

La fattispecie quindi è una erogazione di prestazioni speciali con cui l’amm.ne contribuisce più significativamente al benessere psichico e fisico dei lavoratori quando le circostanze del loro servizio siano tali da esporli a particolari pericoli o ad assoggettarli a disagi o malattie in seguito ad espletamento delle loro funzioni.

In particolare, l’equo indennizzo il bene protetto non è l’integrità psicofisica che è solo l’occasione dell’erogazione, ma la speciale condizione del dipendente divenuto infermo in ragione del suo rapporto di lavoro e delle attività ad esse connesse, al di fuori quindi qualsivoglia comportamento omissivo o commissivo del datore di lavoro.

Quindi sulla dipendenza di una malattia da causa di servizio non viene in alcun modo preso in considerazione il comportamento del datore di lavoro, sicchè la sola esposizione a fattori di rischio insiti nella prestazione lavorativa possono comportare il riconoscimento dell’equo indennizzo per il solo fatto che la patologia riscontrata a carico del dipendente sia riconducibile causalmente alla prestazione lavorativa.

Diversamente, ai fini del risarcimento del danno scaturente dalla violazione di obblighi di cui al 2087 c.c., occorre un inadempimento contrattuale suscettibile di venire in considerazione sotto almeno il profilo colposo del datore di lavoro. A tal proposito giova ricordare il principio più volte affermato dalla Suprema Corte di Cassazione (ex plurimis, v. Cass. 03-08-12, n. 13956; Cass. 08.10.2012, n. 17092 e n. 28626 del 2013) secondo cui la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c. la quale, impone all’imprenditore, l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti si rendano necessarie a tutelare l’integrità psicofisica dei lavoratori (Cass. n. 6377 e n. 16645 del 2003).

La Corte ha già avuto modo di esaminare fattispecie in cui il dipendente deceduto per infarto del miocardio era stato costretto ancorchè non per sollecitazione diretta, a conformare i propri ritmi di lavoro all’esigenza di realizzare lo smaltimento delle proprie incombenze nei tempi richiesti dalla natura e dalla molteplicità degli incarichi affidatigli.

E’ irrilevante l’assenza di doglianze mosse dal lavoratore, così come l’ignoranza delle particolari condizioni in cui sono prestate le mansioni affidate ai dipendenti che, salvo prova contraria, si presumono conosciute dal datore di lavoro in quanto espressione ed attuazione concreta dell’assetto organizzativo dallo stesso adottato (Cass. n. 9945/2014).

Nel caso di specie tra i comportamenti omissivi rilevanti ai fini della responsabilità ex art. 2087 c.c. va certamente ascritta la violazione dell’art. 44 CCNL comparto sanità del 01.09.1995 il quale ha previsto che l’istituto della PD rimane regolato dall’art. 18 del DPR 270/87 ed è applicato rigorosamente agli operatori ed alle condizioni ivi indicate.

Tale norma prevede tra l’altro, al comma 11 che, di regola non potranno essere previste per ciascun dipendente più di 6 disponibilità per mese. La violazione reiterata e sistematica di tali limiti legali e contrattuali costituisce un comportamento imputabile alla P.A. idoneo ad integrare un’ipotesi di danno non patrimoniale per usura psicofisica che è risarcibile in caso di pregiudizio concreto patito dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della specifica deduzione e prova (Cass. n. 14288 del 2011 e n. 11727 del 2013).

Inoltre, si sottolinea che le condizioni dei reparti, la consistenza degli organici, l’entità dei servizi da rendere all’utenza e le condizioni ambientali in cui il personale è costretto a lavorare, sono ben conosciuti alla P.A. ed ai suoi dirigenti, cui sono riconducibili i comportamenti omissivi o commissivi attraverso cui le scelte organizzative si esprimono. Ove da ciò risultasse quindi una nocività dell’ambiente lavorativo o delle condizioni di lavoro, non è sufficiente ai fini delle prova liberatoria la generica allegazione della carenza organica, occorrendo invece la deduzione di fatti specifici restando altrimenti imputabile all.amm.ne l’evento lesivo ascrivibile in via anche solo concausale.

Per tali motivi la sentenza impugnata va cassata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c..

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