Condannata nuovamente l’Azienda Policlinico Umberto I di Roma ai buoni pasto per 13mila euro e al tempo tuta per 5mila euro per ogni infermiera.
Non c’è più pace per gli ospedali e le case di cura perché dove interviene l’A.A.D.I. scatta sempre la condanna ai buoni pasto e al tempo tuta anche se gli eccezionali avvocati degli enti trovano ogni cavillo per interpretare il C.C.N.L. a proprio comodo.
Purtroppo per loro, il collega Mauro Di Fresco aveva già postulato nel lontano 1994 che il diritto di mensa non ammetteva sconti e che andava risarcito sia con il denaro (nonostante la legge dica che non sia monetizzabile), sia attraverso la forma reale dei ticket ed ovvio, quindi, che quando Di Fresco viene ascoltato dal giudice, come è avvenuto in questo ultimo caso, non c’è via d’uscita che tenga perché studia questa materia da 30 anni.
Anche questa volta è stato dimostrato (e con una certa difficoltà) che il divieto di monetizzazione del diritto al pasto, come previsto dal D.Lgs. di origine europea, interpretato unicamente al C.C.N.L., si prefigge l’obiettivo di evitare il mercimonio della pausa che spetta obbligatoriamente ai lavoratori, ma il divieto non rileva nei casi di inadempimento legale.
Superato questo ostacolo interpretativo, il tribunale non ha potuto che accogliere anche la domanda sulla quantificazione del dovuto, come esattamente accertato dallo Studio Commercialista dell’A.A.D.I., senza che l’azienda potesse contestare neppure un singolo centesimo.
L’accoglimento del ricorso ha comportato anche la condanna delle spese legali, ma, nonostante ciò, l’azienda (come tutte) continua a non pagare i buoni pasto ai colleghi che non hanno il coraggio di reagire.
Però, gli stessi che hanno paura di far valere i propri diritti, poi fanno sciopero per 50 euro in più in busta paga, quando, invece, il tempo tuta e il buono pasto, apportano più denaro.
Sono come foglie mosse dal vento sindacale!
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